di Alfonso Lentini

di Alfonso Lentini

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C’erano poi alcune madri che erano cameriere delle altre madri. Se ne vedevano molte verso l’inizio dell’estate, in prossimità del trasferimento in campagna, nell’antico villino di pietra circondato da troffe di mandorli limoni fastuchi mentuccia (e ai bordi un recinto di rovi e polverosi ficudinnia).

Allora la casa si affollava di madri aggiuntive, indaffaratissime a preparare l’evento. Riempivano coffe e bisacce e scatoloni e sacchi di ogni masserizia: pentolame lenzuola camicioni damigiane scarpe cartacce anfore cordami unguenti medicine e scwhz e fkrtjs. E trasportavano il tutto a piedi, in fila, placidamente cariche come asinelli. Alcune avanzavano con ingombri pesanti posti in equilibrio sul cranio, ma il loro incedere possedeva una misteriosa grazia, quasi che il peso sul loro capo non fosse altro che finzione, un pretesto per consentire ai loro corpi di sfilare in quel modo leggero, belle o brutte che fossero, sullo stradone. Due di queste madri-cameriere, sorelle fra loro, erano sordomute e Le Mute venivano infatti chiamate da tutti. La Muta Angela e La Muta Vincenza. Angela era la più docile e paffuta, maestra nel cucinare frittate al basilico, morbidissime e profumate. Vincenza, secca e lunga, andava soggetta a selvaggi scatti di nervi e bisognava rivolgersi a lei con prudenza, ma era un’eccellente lavandaia: strizzava lenzuola attorcigliandole con forza come se soffocasse serpenti. Dicevano che sotto i vestiti nascondesse una sporgenza pelosa all’altezza del coccige, un mozzicone di coda.

Le due Mute avevano un fratello decrepito e così sdentato che la punta del naso quasi gli toccava il mento. Era uno degli ultimi anarchici del paese. Aveva avuto, dicevano, un’ottima lingua, pure se analfabeta e ignorante. Quando incitava alla sovversione i braccianti, le sue parole diventavano di fuoco e tutti gli andavano dietro. Io però non gli ho mai sentito pronunciare una parola. Non che fosse muto come le sorelle, solo che non parlava, ormai non voleva più parlare.

Fra queste madri aggiuntive ve n’era una, cameriera più giovane e per questo minore, fata dagli occhi allungati come grandi virgole (e, dentro, due pupille guizzanti, lune nere d’alchimia).

Questa madre minore e bellissima attraeva il bambino in maniera diversa dalle altre. Appena si sentiva guardata da lui, la ragazza per scherzo portava le mani alla gonna per stirarla il più possibile verso il basso, a nascondere le gambe. Ma intanto gli sorrideva sfacciata e quelle carezze sulle cosce raccontavano ben altre idee. Se il bambino la sorprendeva curva a lavare i piatti mentre la scollatura rivelava l’oscillazione rotonda dei seni, lei immediatamente si ricomponeva, come ala di passero faceva volare la mano sul petto, ma poi sorrideva ancora divertita, guardandomi dritto negli occhi.

Subito dopo scene come questa, il bambino avvampava e correva a chiudersi in salotto, dove non c’era mai nessuno a parte le grandi foto ovali e alcune immagini di santi. Si buttava a pancia in giù sul divano, serrava gli occhi e strofinava con rabbia l’addome sui cuscini finché il tempo si scioglieva in un olio indefinito.

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Le madri dall’ossatura aviforme, invece, di solito ristagnavano immobili, sia d’estate che d’inverno, sedute su certi seggioloni traballanti, a gambe penzoloni, come lucherini sul trespolo, tanto erano rattrappite. Nate vecchie, si svegliavano ad ore tarde scendendo da letti altissimi; emergevano da un viluppo di coperte, trapunte, gualdrappe come da un nido e si avviavano con movimenti rallentati verso i loro seggioloni. Erano capaci di rimanere immobili per ore, e in silenzio. Ogni tanto litigavano perché il caffè, che sorseggiavano dentro grandi ciotole di maiolica, era troppo dolce o troppo amaro o perché l’avevano bevuto troppo tardi, ormai freddo. Oppure altercavano caparbie per futili motivi come il precoce appassimento di un mazzo di fresie, la rottura di un vaso di vetro sfuggito di mano a qualcuna di loro, oppure si accapigliavano rilanciandosi l’accusa di non aver saputo tacere a sufficienza durante il solenne momento del riposo pomeridiano delle madri maschio. Allora diventavano livorose e parlavano a scatti, con il viso girato dalla parte opposta, per sfregio.

Ho avuto cento madri, ma delle tre aviformi solo una qualche volta dava segni di vita propria e allora, ponendosi sotto il cono di un lucore giallastro ed estenuato, si impadroniva di un libro ed essendo miope leggeva tenendo le pagine a pelo delle sue pupille dilatate, come se dietro le lenti volesse esaminare non i caratteri tipografici ma le minime crespe della carta. Leggeva fiabe antiche da libri decrepiti i cui fogli sembravano sul punto di dissolversi in polvere ed erano così sottili che lei per separarli uno dall’altro doveva soffiarvi adagio con le sue labbra rigonfie da maschera africana. Leggeva fiabe antiche e poi le raccontava parola per parola al bambino con voce tremolante, modulata su suadenti sussurri, travasando come da un vaso a un altro remote cantilene: Spera di Sole Spera di Sole,  sarai regina se Dio lo vuole; Ranocchino porgi il ditino, Ranocchino porgi il ditino….

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Essendo non solo quasi cieca ma anche quasi sorda, questa madre leggente e narrante trascorreva le sue ore in beato ottundimento, galleggiando nell’aria dentro a una grande bolla di sapone che la recideva dal resto del mondo. Era una madre-monade, una molle crisalide che comunicava quasi esclusivamente col bimbo, ma da distanze galattiche. Leggeva antiche fiabe che mi invitavano a una dolce sonnolenza: È venuto un cardellino, si è posato sopra un ramo e si è messo a cantare. Canta, canta, canta, mi si aggravavano gli occhi. Lo scacciai da quel ramo, ma andò a posarsi sopra un altro. Canta, canta, canta, non mi reggevo dal sonno. Lo scacciai anche di lì, e appena cessava di cantare, il mio sonno svaniva. Ma si posò in cima all’albero, e canta, canta, canta…, ho dormito finora!

Leggeva fiabe antiche con la sua voce aviforme e labbra rigonfie da maschera africana.

Oppure a volte iniziava interminabili dialoghi senza parole con la Muta Vincenza. La madre leggente conosceva una rudimentale lingua dei segni che l’altra comprendeva benissimo e si esprimeva a gesti, smorfie e grottesche deformazioni delle labbra. Le due madri dialogavano per ore, ridendo o litigando o concionando di invisibili teofanie. Le loro veloci smusate, stiracchiamenti di labbra, rigonfiamenti di gote, isate di sopracciglia, scricchiate d’occhi davano vita nell’aria a un silenzioso cicaleccio, un linguaggio cifrato che sembrava segretissimo, inaccessibile ai comuni parlanti. Puntando come galletti gli occhi una nell’altra, con una sola sciabolata dello sguardo sembrava che si confidassero arcani di vitale importanza, notizie giunte da mondi remoti. Le dita ballavano svelte davanti alle labbra, ogni muscolo facciale in consonanza con gli altri formava sui loro visi un cinema mobilissimo.

(Ma certi guizzi sospettosi delle pupille segnavano lievi deragliamenti del campo visivo, virgole di sospensione attraverso cui le due madri sembravano controllare furtivamente che qualcuno dal mondo esterno non stesse a spiarle. Subito dopo gli sguardi tornavano a conficcarsi ipnotici uno nell’altro: la madre narrante sembrava aver perso la miopia e la madre muta sembrava usare un ricco vocabolario fatto d’aria).

(…)

Da “Cento madri” (Ed. Foschi 2009, opera vincitrice del premio letterario Città di Forlì)

Di Bac Bac