di Renato Viviani

Ho letto per la prima volta il libro Le Vene Aperte dell’America Latina, di Eduardo Galeano, una quindicina di anni fa e mi ha subito affascinato, è stato un prezioso compagno nei miei viaggi nelle Americhe, a volte accompagnandomi fisicamente a volte solo nella memoria.

“Questo libro era stato scritto per conversare con la gente…. per divulgare avvenimenti sui quali la storia ufficiale, quella scritta dai vincitori, tace o mente”. Questo dice lo stesso autore del suo libro che denuncia lo sfruttamento feroce delle risorse preziose nel continente latinoamericano. Lo fa con parole chiare e in maniera cruda ma riesce ad essere semplice e poetico quando descrive la solidarietà e la capacità di sopravvivenza dei popoli. Racconta il colonialismo nella sua evoluzione, a partire dalla colonizzazione degli spagnoli e dei portoghesi, per arrivare al colonialismo economico inglese e americano e anche a come hanno tentato di distruggere il patrimonio culturale dei popoli indigeni e la loro capacità di creare e trasmettere conoscenza, assoggettandoli alla cultura dominante.

Fu stampato per la prima volta nel 1971 e quest’anno compie cinquant’anni.

“ …La città che più ha dato al mondo e che meno possiede… ”

Sono le parole con le quali descrive Potosì, la città della Bolivia famosa per le sue miniere d’argento. E queste parole sono riemerse nitide nella mia mente quando, al bagliore delle lampade a carburo, attraversavo con i minatori uno dei tanti cunicoli scavati nel ventre del Cerro Rico, la montagna dalle cinquemila bocche (le gallerie aperte dagli spagnoli) da dove, come dice Galeano, ”per secoli è gocciolata ricchezza” e per secoli ha anche ingoiato la vita di otto milioni di persone.

“ …la violenza è stata, e continua ad essere, una componente naturale in Guatemala…”,

Le stesse parole che ascolto dai compagni di Nuevo Horizonte, la cooperativa fondata nel Petén (Nord-Est del Guatemala) dagli ex guerriglieri delle FAR (Fuerzas Armadas Rebeldes) dopo gli accordi di pace con il governo guatemalteco. Trentasei anni è durato il conflitto armato interno, la lotta di ribellione contro i massacri dei popoli indigeni e contadini da parte dei dittatori sanguinari succubi delle multinazionali statunitensi interessate alla coltivazione del caffè, della canna da zucchero e della banana. La comandante Petrona dice: “ Ci hanno accusati di essere sovversivi ma noi non sapevano nemmeno cosa fosse il comunismo. Ci uccidevano peggio che animali perché eravamo poveri e non servivamo.”

“ …Nel 1888 in Brasile venne abolita la schiavitù ma non si abolì il latifondo e il mercato del bestiame umano continuò a funzionare…”.

In Brasile le multinazionali della “green economy” hanno installato enormi parchi eolici sulle coste, devastando il litorale con danni per la pesca locale, nelle zone agricola coltivate, espropriando con la forza le terre delle popolazioni rurali, perfino in mezzo ai villaggi hanno installato pale e il forte rumore del moto continuo impedisce alle gente di dormire con i danni alla salute che ne derivano, tutto questo con l’aiuto di governi e funzionari corrotti e di una polizia violenta. A Quilombo do Cumbe, un villaggio dello stato del Cearà in Brasile, Luciana del Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (organizzazione per l’occupazione e la difesa delle terre e della salute delle sue popolazioni), mi dice “ dobbiamo resistere per esistere, la cosa più difficile non è scendere in strada con la polizia schierata ma convincere tutte le famiglie della comunità ad aderire alla lotta”.​

“Nel periodo intercorso dalla prima edizione delle Vene ad oggi, per noi la storia non ha mai smesso di essere una maestra crudele. Il sistema ha moltiplicato fame e paura; la ricchezza ha continuato a concentrarsi e la povertà a diffondersi…”

In una edizione successiva del suo libro, Galeano aggiunge un capitolo nel quale analizza ciò che era accaduto in quegli anni in America Latina. La storia ci dice che sono stati anni di violenze e colpi di stato che hanno causato morti e decine di migliaia di desaparecidos. A Buenos Aires ho conosciuto Taty Almeida, una delle Madri di Plaza de Mayo, oggi a oltre novant’anni, continua con tenacia e lucidità la battaglia per i diritti umani, mi dice : “…il nostro dolore lo abbiamo trasformato in una lunga battaglia pacifica…”

Era il 1977 quando nasce, formata da un piccolo gruppo di donne, le madri dei dissidenti scomparsi, l’associazione Madri di Plaza de Mayo. Da allora, nel pieno della dittatura militare, fino ad oggi, tutti i giovedì’ pomeriggio le Madri si ritrovano in piazza per la ronda attorno alla Piramide, con i loro ‘panuelos blancos’, per continuare la loro lotta.

“L’impero incapace di moltiplicare i pani fa il possibile per sopprimere i commensali” ​

Di Bac Bac