di Vito Bianco

Dieci anni fa ci lasciava Andrea Zanzotto, uno dei maggiori poeti italiani del secolo scorso, che il 10 ottobre avrebbe compiuto 100 anni. Per ricordare e celebrare un grande maestro della lingua italiana, ripubblichiamo un articolo uscito nel novembre del 2011 sul mensile Segno.

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In una poesia intitolata “Figura”, compresa nella raccolta giovanile A che valse ?, Andrea Zanzotto fa entrare in scena la morte alla fine di un componimento (potrebbe essere l’ecfrasis di un quadro) in cui si descrive un solenne e mesto convivio in una dimora aristocratica: si mangia, si bevono vini squisiti, si conversa, “un giullare canta lungo/i pallidi conviti”, ma nessuna di queste piacevolezze riesce a tenere lontana l’ombra che ciascuno dei partecipanti al banchetto può facilmente riconoscere dentro di sé. L’endecasillabo finale – metro comune e nobile della nostra tradizione – suggella col suo ritmo familiare l’elegante riunione, e indica, oltre le mura della casa, un “fuori” che preme ed esige ascolto: “muto splendido cane è la morte”.

Emblema domestico del perturbamento ferale e dato individuale inaggirabile, lo “splendido cane” è al contempo figura storica, collettiva di decadimento e fine, destino generale che riguarda le comunità e i luoghi dove si sono insediate ed esistono e sui quali gli uomini lasciano i segni del loro lavoro e del loro prendere dimora. E proprio nell’intreccio non pacificato di singolare e collettivo, di storia e natura, di tecnica e tradizione che si aggira fin dall’esordio il lavoro poetico di Zanzotto, costantemente alimentato da una invidiabile lucidità e freschezza, che ha attraversato instancabile buona parte dello scorso secolo e si chiude con un ultimo libro di sorprendente energia giusto a un passo dalla svolta del primo decennio di questo nuovo. Del Novecento il poeta trevigiano è stato un sorta di personificazione lirica, ne ha tradotto in versi materiati e tesi lacerazioni e slanci, orrori e fughe improvvise verso un avvenire tanto catturante quanto gravato di pericoli e insidie.

Paesaggio è forse la parola chiave di tutta la sua opera, la zona dove si tocca e si congiunge la polarità di cui parlavo, ne rappresenta la concrezione visibile nella quale è possibile misurare il grado di civiltà di una cultura, l’amore o il disamore che una società ha per quello che l’ha fatta ciò che è, il male che è capace di infliggere a se stessa. Nessun idillio romantico trova posto nella sua poesia, mai il paesaggio ascoltato e spiato con amorevole attenzione diventa un semplice “correlativo oggettivo”, metafora che trasporta in direzione di un sentimento privato – solo privato. Sempre in lui vi appare come simbolo culturale immediato, poiché natura e cultura nei suoi versi avanzano insieme e insieme retrocedono.

“Da questa artificiosa terra-carne/esili acuminati sensi/e sussulti e silenzi”, si legge in un testo di Vocativo , “da questa bava di vicende/-soli che urtano fila di ciglia/ariste appena sfrangiate pei colli-/ da questo attimo/inghiottito da nevi, inghiottito dal vento”. Una terra che anche carne, un paesaggio come cosa vivente alla quale siamo destinalmente legati, che ci riguarda alla stregua della nostra stessa esistenza, spazio fisico fuori di noi da far nostro senza mediazioni che ne attenuino l’ineludibile presenza e l’originaria consustanzialità.

E da Dietro il paesaggio (’51) non poteva che cominciare la sua esaltante e solitaria avventura letteraria, da un personale sentimento della natura, da un impetuoso, quasi ingenuo e però colto desiderio di dare al paesaggio che abbraccia Pieve di Soligo, dove Zanzotto è nato e ha vissuto fino alla morte, le parole e il canto che meritava, rinominando – con una lingua insieme antica e ultramoderna – la neve, la rosa e l’indivia, che solo lui è capace di far giocare con i dendriti, il silicio e il petèl, il gergo vezzeggiativo inventato dalle mamme venete per parlare ai figli di pochi mesi.

Non c’è forse stato poeta novecentesco che abbia avvertito con altrettanta forza la “naturalità” ferita dell’uomo moderno, che più di Zanzotto abbia sentito nel corpo il dolore per quel che ogni giorno diventava intorno al lui il bosco, la valle, la collina, la campagna. Nel corpo vuol dire, per un poeta, nella lingua; una lingua che subisce le scosse elettriche della tremenda mutazione patita dall’ambiente naturale, che i suoi versi percussivi e variati registrano quasi con stupore mimetico e partecipazione immaginativa, come a voler salvare il salvabile, trasformandolo rilkianamente nell’invisibile della scrittura che redime il transeunte e l’offeso nella sperata perennità del verso.

Tecnica e natura si fronteggiano, così come la scienza moderna e le regioni profonde della psiche; la creazione umana e quella naturale ingaggiano una lotta che può avere esiti definitivi, irreversibili. La duttilità idiomatica della lingua di Zanzotto si occupa di questo conflitto che si fa di tempo in tempo più aspro; reattiva e densamente metaforica la sua scrittura attinge al ricco serbatoio della tradizione non solo italiana (si pensi alla sua predilezione per Hörderlin) e la ricarica di una potenza affatto inedita e contemporanea.

Così nel clima del vocativo classico riattinto con sensibilità contemporanea, i “mozzi trastulli” sono “pensieri in cui mi credo e vedo,/ingordo vocativo/decerebrato anelito” che conduce “donde la mia/lingua disperando si districa/e vacilla; vacilla se dal dosso/attonito del monte/smuove le sue lebbrose fronti il cielo”.

Prensile, animata, perennemente in lotta con se stessa e in dubbio sulla propria efficacia nominativa la lingua poetica dell’autore di Fosfeni non ha mai smesso di guadagnare terreno dando vita a uno straordinario processo di autoricreazione, attirando nella sua sofisticata “macchina poetica” i più diversi linguaggi settoriali – scientifici e umanistici – dalla fisica dei quanti all’antropologia strutturalista alla linguistica e alla psicanalisi lacaniana, tutti “lavorati” e metabolizzati dalla mente speciale di un raffinato cultore della parola per il quale il fare poetico era una branca della conoscenza, una “scienza dell’uomo”.

Non può quindi sorprendere la compresenza nella sua cospicua opera di furore lirico, di verticalità alla Celan e di orizzontalità onnivora, di una forma franta e spericolata di saggismo ​in versi, un “pensiero in azione” che si muove a scatti e per repentine associazioni di idee – suoni. Ma sarebbe corretto parlare di lingua, più che di pensiero, poiché è chiaro che nulla succede nella testa di un poeta che non riguardi un movimento (in senso propriamente musicale) linguistico, un ritmo interiore.

Ed ecco come, per fare soltanto un esempio, in un componimento della Beltà (’68), che correttamente Stefano Agosti considera “il punto più ‘basso’, vale a dire più profondo toccato da Zanzotto nel suo percorso poetico”, ad un inizio di semplicità descrittiva: “Ma casa è questo momento, cielo/di azzurro senza danno mai danno/o di paziente fumo”, segua, pochi versi dopo, un intermezzo meditativo: “io non vedo nulla e recito senza sforzo/o con sforzo una vita”, che prepara situazione di tensione tra natura e una prima persona plurale: “Noi non sappiamo: solo un cielo celeste/e una terra dirotta ma celeste alla fine sugli orli”, dove fanno capolino non chiare vicende storiche viste ad altezza di suolo, di identificazione tra umano e naturale: “Non è tedesco né italiano, siamo tutti tra i minori/come l’erba è minore, come la rugiada”. È il singolare, eccentrico andirivieni di una poesia che risalta per altezza di risultati e originalità di invenzione.

Non c’è autore italiano che gli si possa accostare, se non, fatte le debite differenze, un certo Pagliarani, quello più attratto dai codici linguistici delle scienze “dure”. Ma ad accomunarli è soprattutto una inesauribile vena sperimentale, il tenace e accanito lavoro sulla lingua che li sprona a ripartire come dall’avamposto più estremo verso un territorio ancora inesplorato. Questo senso avventuroso della parola ha condotto Zanzotto, al principio degli anni Sessanta, in regioni di ardua percorribilità, di rarefazione spinta sino al limite dell’implosione o della sonorità allo stato puro o di prevalenza del significante sulle “cose da dire”.

Va però detto che questa oltranza sperimentale, che in altri sarebbe probabilmente apparsa mera provocazione o, peggio, sintomo di aridità, in lui si presenta come ciò che in realtà è: lo sbocco necessario di un rovello mentale, di un impegno esistenziale, di uno scavo meticoloso e concentrato che durava da trent’anni nel midollo della lingua nazionale. Uno scavo che lo ha riportato nel grembo della lingua materna di Pieve, carica di memorie biografiche e prenatali, luogo verbale dove si incontrano l’origine e il futuro, l’inizio e la fine, “il verde acume del mondo” e le ritornanti domande (“che ne sarà della neve/che ne sarà di noi?”) di un poeta che trovava nelle immondizie “tracce del sublime/buone per tutte le rime” e al quale, inchiodato alle “maligne ore”, la morte è potuta sembrare “il male minore” ( Conglomerati , 2009).​

Di Bac Bac