di Nuccio Dispenza

“Molestare significa lasciare segni profondi in chi legge, scombussolandoli, avventurandosi nei suoi convincimenti, scardinarli, confermarli, scartocciarli”.

Silvana Grasso, scrittrice che molesta, oggi si propone grande “molestatrice” della limacciosa politica siciliana annunciando di volersi candidare alla presidenza della Regione . “Scrittrice”altra”, frutto spinoso dell’Isola, una vita tra Gela e Giarre, ai piedi dell’Etna che tanto le entra nelle vene e nel segno della sua scrittura. Se le chiedo il perchè di questa scelta, che – ci tiene a precisare – non è una auto candidatura – lei mi parla di una lettera. Quella di una donna, di una madre di Librino. Una vita con l’uomo in galera, lei periferia umana in una periferia sociale e urbanistica. “Vorrei essere la candidata di tutte le periferie.”

Parleremo dopo della tua idea di candidarti alla Presidenza della Regione. Ora, insieme, facciamo un salto indietro. Il nostro primo incontro credo risalga a trent’anni fa. Passeggiammo e discutemmo di letteratura e di Sicilia sulla spiaggia di Gela. Innanzi il mare, alle spalle le testimonianze di una civiltà soffocata da scelte sbagliate, testimoniate, laggiù in fondo dalle ciminiere. Cosa è cambiato in Sicilia in questi lunghi anni, cosa non è cambiato?

“Ti dirò prima quel che non è cambiato, una Natura che se ne frega dei calendari e delle aspettative degli uomini, decide lei quando e come fiorire, sbocciare, occultarsi, donarsi. Le mareggiate che svenano a riva e trovano pace nella sabbia materna della nostra costa, il  tramonto siciliano che non tramonta mai, la Luna siciliana che è madre amante confidente e non lesina il ristoro d’una carezza a chi guarda il cielo, a chi ancora spera nel cielo e nella sua provvida maestà,  perché la terra sprofonda sempre più e nello sprofondo non  troviamo un miracolo di stalattiti e stalagmiti, troviamo il ghigno dell’incuria, la lebbra del cemento che non è cemento e da un attimo all’altro ponti strade possono crollare squarciarsi divorando inermi cristiani come i due terribili draghi che nelle furenti spire stritolarono Laocoonte, ma dal Mito, che è la chiave di tutto, nessuno vuole imparare la lezione. 

Non è mutato il Vulcano, il suo patriarcato, cui nessuno osa ribellarsi, non sono mutate le sue erinni di fuoco che solfeggiano l’aria bruciando arbusti  pini ginestre con alluppiante odor di resina. E quando il suo sperma di fuoco furtivamente si congiunge all’onda cheta, il Mare non arretra spaventato, raduna le sue forze, i suoi fondali d’alghe e leggende, duello tra giganti senza vinti né vincitori.

La Bellezza non muta, nonostante i predatori di Bellezza, gli occultatori di Bellezza, nonostante una Politica incurante dissennata insensata che tiene lucido solo il palcoscenico in cui esibirsi ed esibire rozzi canovacci firmati da mercenari, recitate da tirapiedi spacciati per attori e registi acchiappati alla fiera dell’anguria”. 

Parliamo di parole. Quelle che tu incidi nella tua scrittura.. In questi decenni le parole sono state ficcate nel frullatore dei social. Che ne pensi dei profondi cambiamenti del parlare e dello scrivere?


“La parola, il suo mistero, il suo magistero, ma più la sillaba, che ne è lo zigote primo oggi specie in estinzione, specie non protetta se non da qualche autore che, della lingua, ha fatto la sua narrazione. Non la lingua come strumento per narrare, lingua sciatta, informe, uniforme, omozigote, già con stigma genetico, ma la narrazione della lingua che rischia davvero di scomparire.

Paradossalmente sono stati proprio i social, con la comunicazione del segnetto (xperchè), dell’amputazione (tvb cmq) della frammentazione, a ridestare interesse alla lingua e accendere il faro. Senza una lingua che ne sia  testimonianza un popolo è solo ammasso di uomini che nascono e muoiono schedati e censiti in un’anagrafe comunale. Quanto a me scrittrice non ho mai perso di vista l’immortalità d’una lingua che si rinnova muta e mutua linguaggi preesistenti con i nuovi “extra-comunitari” dei social. 

Sono infedele al mio principio secondo cui la parola intonsa non pronunciata non scritta non mercificata, trattenuta un attimo prima che l’insulto dell’inchiostro la contamini la sfiguri sia la mia miglior parola, ma ahimè ho lasciato che andasse via, che oltrepassasse il guado, non l’ho tenuta per me, nella clausura del mio pensiero, evidentemente la solitudine del non pubblicare è stata più forte di qualunque principio, dunque mea culpa, sono reo confessa di reato e senza attenuanti.

Hai sempre avuto e mantieni un profondo rapporto con i giovani. In tanti ti leggono, molti fanno dei tuoi scritti oggetto di ricerca letteraria. Non solo in Italia. Guardando ai giovani, il tuo pensiero.

“Da sempre la gioventù, più che i giovani, è il mio territorio più congeniale. Non ne faccio una questione d’anagrafe, ma di gioventù di spirito, di ideali, di rinascita, ovunque io veda questa lux iuventutis, a prescindere dall’anagrafe, semino e non ne resto mai delusa. Da quando, negli ultimi anni, ho preso a incontrare i miei lettori, anche 100 incontri l’anno, da Nord a Sud, prima dei domiciliari imposti dal Covid, assorbo la loro “gioventù” me ne nutro e la platea sempre amplissima si compone, in par condicio, di giovanissimi, giovani, meno giovani che, nella mia scrittura convergono su, credo, punti saldi: la mia lingua nirbùsa metricale musicale che adopero come uno strumento che mi fossi creata e così è stato, certo non ho avuto bisogno di legno come per un violino, ma di sensi, senso e ogni parola ha avuto una sua vita autonoma singolare all’interno del testo e persino eversiva rispetto a me. Magnifico, la mia lingua mi si ribella, acquista vita, personalità, dittatura persino.

Quanta metamorfosi devo ai miei lettori, metamorfosi che prima mi era negata da un “autismo” che credevo fosse caratteriale e che, solo da qualche anno,  dopo avere insistentemente disperatamente incessantemente scavato alla ricerca di una diagnosi, come Edipo del Mito alla ricerca della verità- terribile nel suo caso, uccisore del padre, marito della madre Giocasta, padre di 4 figli -radici di sangue- ho saputo fosse  stigma genetico della famiglia di mia padre!  Ma anche queste “scoperte” che possono all’iniziare destabilizzare, si rivelano poi soteriche nella conoscenze più profonda di noi stessi”.

Quindi, un romanzo deve molestare, molestare chi scrive, molestare chi legge...

“Molestare significa lasciare segni profondi in chi legge, scombussolandolo, avventurandosi nei suoi convincimenti, scardinarli, confermarli, scartocciarli, mettendone in precario quella rilassatezza che spesso è solo assuefazione: ma sì vada per il libro-tisana che induce al sonno come un sedativo ma non lo è, sì al libro dopocena al posto del dolce perché il libro non induce glicemia. Da un romanzo, come da un’opera d’arte di qualsivoglia natura, non si può uscire come dalla doccia in estate, semplicemente  rinfrescati!  Se si “esce” da un libro, da una galleria, da un museo, senza un assillo che faccia la sua strada, che scavi le sue gallerie nell’anima, nell’emozione, nella coscienza, se non si duella con il pensiero dell’artista, se non lo si sfida o se non si soccomba  alla sua sfida, questo è la cartina tornasole del fallimento dell’artista, dello scrittore,  che avrà scritto sillabe parole pagine capitoli, un everest di parole ma senza inchiostro d’anima, senza echi, senza produrre quei lasciti d’inquietudine che io chiamo “molestia”. E la mia candidatura è già molesta a quanti, soliti noti del cursus (dis) honorum, non indietreggiano mai, speranzosi di candidarsi anche dopo il sacramento dell’estrema unzione ( non si sa mai! Magari un miracolo…), sicuri che tanto qualunque reato sia stato commesso, anche solo d’ordine etico morale, venga immediatamente dimenticato in un tempo balordo che manda al macero sentimenti passioni e persino i morti. Ci si congeda velocemente da un lutto, troppo velocemente, quasi che il dolore per l’assenza possa alienare da un affare, dalla carriera, dal sovrano di diritto a non pendere un attimo della propria vita a ricordare soffrire.

Per restare ai figli dell’Etna – tu, una vita tra Gela e Giarre – la Sicilia, come cantava Franco Battiato, ha bisogno di cura.

La mia è una dichiarazione di molestia a oltranza, la Sicilia collassa da decenni, sfigurata oltraggiata saccheggiata, abbandonata all’incuria, senza nessun rispetto per quel che l’Isola spontaneamente ci regala, clima, paesaggi, coste, archeologia, che già con un’amministrazione ordinaria sarebbero fonte di grande ristoro e economico e d’immagine. Il mio programma, mio, non tirato fuori da internet, non ha bisogno di un tomo, solo qualche pagina in cui l’idea prima è scartavetrare, liberare l’Isola dalle superfetazioni di tante inutili figure parassitarie che a varia nomenclatura, consulenti componenti esperti espertissimi (anche del raglio degli asini), continuano a svenare quel che resta d’un sangue isolano ormai leucemico. Ancora, ghigliottinare il sistema che privilegia solo gli apparentati politici e le loro parentele-clan, assecondando il principio sacrosanto che esclusivamente il merito deve bastare alle carriere non le anticamere né mai la “conta” dei voti, sfrattare questa lebbra permetterà a un esercito di giovani eccellenze in ogni professionalità di restare nella loro Terra ed esserne numi tutelari. Questo solo l’incipit di un programma concreto senza nessuna concessione all’aria fritta e alla vecchi lebbrosa poltica.

Di Bac Bac