di Vito Bianco

foto di Vito Bianco

Per questo incarico faccio il “tempo pieno”, come diciamo noi. Comincio alle otto e alle dodici e mezza faccio una pausa di un paio d’ore. Alle due e mezza ricomincio e vado avanti fino alla sei. Se serve, faccio uno straordinario serale, pagato con un extra. Chi non l’ha mai fatto, è portato a credere che seguire qualcuno senza farsi notare sia facile, che basti tenersi alla giusta distanza e far finta di leggere un giornale. Io annuisco e li lascio dire, non mi prendo nemmeno più il disturbo di contraddirli; sarebbe fatica sprecata, per non parlare del rischio di insospettire l’interlocutore, che a quel punto vorrebbe sapere come mai la so tanto lunga sull’argomento.
La distanza e il trucco del giornale fanno parte della tecnica, certo, ma sono solo due degli accorgimenti o abilità che formano il bagaglio di un buon pedinatore. Degli altri non voglio parlare, sono il segreto del mestiere, per me è un dovere professionale tacerli; posso solo dire che il dosaggio perfetto di tutti gli elementi, graduato sul soggetto e le circostanze, conducono quasi naturalmente a quello che nel nostro gergo chiamiamo  “stadio dell’invisibilità” o “trasparenza”, quando i gesti, i movimenti, le soste, gli improvvisi cambi di direzione non sono più il frutto di una decisione ma dell’istinto, della pura intuizione.


Per arrivarci ci vuole una predisposizione innata e molti anni di pratica. Si impara anche dagli errori, come in altri campi, ed è per questo che l’umiltà, ossia la capacità di mettersi in discussione spesso fa la differenza.
Quando un collega che inizia mi chiede qual è la cosa più importante da sapere di questo mestiere, che per molti aspetti si avvicina all’arte drammatica, io rispondo sempre: l’umiltà. Dalla reazione alla risposta sono in grado di dire se il giovane principiante ha o non ha un futuro, e se sì quanto sarà radioso questo futuro.


Se ridacchia, se pensa che stia scherzando, che voglia divertirmi a sue spese, ho la certezza che combinerà ben poco di buono, per quanto possa avere del talento, che presto o tardi lascerà perdere e cercherà altre strade.
Se invece mi guarda attento e aspetta di sentire il seguito, capisco che ha afferrato quel che voglio comunicargli, e allora vado avanti, arricchisco il concetto, faccio qualche esempio tratto dalla mia ormai lunga esperienza, lo invito a pranzo o a cena per conoscerlo meglio, mi metto a disposizione per qualsiasi chiarimento.

Confesso che anche dopo tanti anni passati a calpestare le orme di un altro, uomo o donna, il mestiere conserva per me un fascino quasi immutato. Mettersi sulla scia di una persona, osservarla senza essere visto, fotografarla, se occorre, cercare di captare quel che dice quando pensa di essere sola somiglia a un corteggiamento muto, o al lavoro dello storico che sulla base di testimonianze e documenti cerca di ricostruire il più fedelmente possibile un avvenimento o la vera personalità di uno dei suoi protagonisti.


L’uomo che seguo, l’uomo che per ore e giorni e settimane rappresenta il centro di ogni mio pensiero si trasforma gradualmente in un’immagine che non mi abbandona neppure la notte, quando dovrei dormire e invece rimugino sui frammenti raccolti, sulle tracce ancora labili, sugli spicchi di frasi orecchiate in un caffè o sulla panchina di un parco dove il mio soggetto è andato a leggere un quotidiano economico prima di tornare al lavoro.


E forse accade, rifletto ora, perché tra me e lui si tende un filo o, meglio, una corrente che ci lega, come se in fondo, e in un modo incomprensibile, l’uno non fosse che il doppio necessario dell’altro, e lui esistesse per farsi pedinare da me che sento di esistere solo per essere il suo infallibile segugio, l’occhio privato e prezzolato che non lo perde mai di vista.
Ora inforca gli occhiali da sole; li inforco anch’io, che dall’altro lato della strada lo vedo uscire dal palazzo dove si trovano gli uffici della Toyota, la fabbrica di automobili per cui lavora, sull’interminabile viale a due corsie che congiunge due città della medesima grandezza.


Aspetta il verde al semaforo e poi attraversa diretto al parco più vicino, dove vado ad aspettarlo seduto sulla prima panchina a sinistra, cinquanta metri dopo il cancello d’ingresso. Il mio soggetto si siede sull’altra, a destra, uguale ma di colore diverso. Abbasso il giornale che faccio finta di leggere e lo guardo attraverso i vetri verde scuro che mi nascondono gli occhi. Lui non mi nota, o finge di non notarmi, apre il suo quotidiano rosa e comincia a leggere.


Il vento agita le pagine dei nostri giornali e fa tremare le foglie dei tigli. Passa una ragazza su un monopattino elettrico, seguita da un ciclista in tuta aderente, una voce di donna chiama un Michele, il cielo di colpo si oscura. Il mio uomo si alza, si toglie gli occhiali e va verso il cancello. Mi passa davanti e, senza guardarmi, mi sorride.

Di Bac Bac