“El universo (que otros llaman la Biblioteca) se compone de un nu mero indefinito, y tal vez infinito, de galer í as hexagonales…” J. L.B., La Biblioteca de Babel

di Vito Bianco

foto di Tano Siracusa

Ho cominciato a leggere perché non avevo voglia di studiare. Allora smisi di studiare e cominciai a leggere. Dopo due o tre settimane mi resi conto che la mie lunghe ore di lettura erano in realtà uno studio, cioè un apprendimento e una comprensione, e che questa comprensione cresceva in relazione al crescere della quantità e qualità di lingua italiana che andavo acquisendo e immagazzinando. Ogni nuovo aggettivo registrato, assaporato e riutilizzato era una conquista e un orgoglio. Non so se me ne rendessi conto, ma col senno di poi posso dire che per me leggere era trovare nuove parole.

Ora direi, in forma aforistica, che leggiamo per trovare nuove parole da aggiungere a quelle che abbiamo già. Il che vuol dire che leggiamo per ampliare il territorio, mai del tutto esplorabile, della realtà: la nostra interna, e quella che ci sta davanti; e una terza, che si crea nell’incontro arduo, incerto, complicato tra le prime due, e che la letteratura ha il compito di rivelare.

Alle medie avevamo un’ora di narrativa. Un romanzo al mese. Un romanzo per ragazzi. Uno si intitolava Il treno del sole , di una narratrice che di cognome faceva Reggiani: un ragazzo, figlio di emigrati italiani in Belgio, studia e diventa giornalista. In quinta il maestro ci aveva letto I ragazzi di via Pal, che mi colpì molto per le battaglie tra le due bande e per la morte patetica e straziante di uno dei ragazzi. A casa niente libri, solo fumetti, dei quali ero, come quasi tutti i miei compagni di giochi, un lettore incantato e insaziabile.

Mi seducevano le storie, naturalmente, ma già anche le parole, il modo in cui venivano scelte dagli autori. Se il Comandante Mark era “famigerato”, e non “famoso”, ci doveva essere una ragione. Tra i due aggettivi c’era una relazione, ma non erano sinonimi: l’uno non valeva l’altro.

In terza media vinsi un concorso di gruppo con un non so più quale tema e mi diedero in premio un cofanetto con una scelta di poesie e prose di Umberto Saba, due tascabili Mondadori con una introduzione di Giovanni Giudici che ho letto una decina di anni dopo, o forse meno, quando avevo già provato a scrivere qualcosa. Non sono sicuro, ma devono avermi incuriosito soprattutto le “Cinque poesie sul gioco del calcio” (“Anch’io tra i molti vi saluto rosso/alabardati”. E con piacere ​ritrovai La capra (“In una capra dal viso semita/sentiva querelarsi…” che avevamo studiato in classe.

I gialli di Agata Christie, Addio alle armi , Martin Eden , Luce d’agosto e Così parlò Zaratustra. Sono i primi titoli che di solito mi vengono in mente quando penso agli inizi della mia fortunata carriera di lettore (non ne ho mai avuto un’altra). Varietà, incoerenza, curiosità istintiva, guidata solo dal desiderio di conoscere quante più cose possibili, guardando in molte direzioni, seguendo sentieri diversi, pronto a fa marcia indietro o a imboccare una deviazione promettente. Nelle storie della Christie trovavo personaggi nettamente caratterizzati e il male, il delitto. Puntualmente punito. E l’ambiente chiuso, omogeneo delle crociere per ricchi. E, naturalmente, la logica induttiva che portava dritta alla cattura dell’assassino. Che a dire il vero si consegnava alzando le mani come un giocatore di scacchi sconfitto.

Hemingway mi avvinse per le frasi brevi e l’assenza di retorica che in seguito avrei imparato a chiamare “sprezzatura”, l’artificio stilistico che consiste nel fingere di fregarsene dello stile. E per “l’amore in tempo di guerra”, un’anticipazione italoamericana della sterminata epopea di Tolstoj.

Zaratustra lo capii poco. Quello strano predicatore per me era un individuo indecifrabile, la sua oscura sapienza mi lasciava freddo, dubbioso, confuso. Martin Eden mi commosse e mi fece venir voglia di diventare scrittore, come succede a tutti quelli che lo leggono da adolescenti. Luce d’agosto fu invece la scoperta che la scrittura poteva essere così fitta, densa e originale da mettere a dura prova la capacità di qualsiasi lettore, figuriamoci la mia di quel tempo. Cosa stava raccontando Faulkner, esattamente?

Ancora, degli anni che precedono il servizio militare, ricordo Beckett, Molloy, le poesie inglesi, Cronin, La bellezza non svanirà, letto durante una febbre, storia di un pastore che lascia tutto per inseguire il sogno della gloria artistica, I quarantanove racconti, l’elettrizzante Sulla strada di Keruac, con quell’ultimo capoverso di prosa elegiaca e vibrante, e i poeti della beat generation in una antologia curata da Fernanda Pivano, l’ambasciatrice italiana di quella esuberante banda poetica di successo. Dopo aver saccheggiato la biblioteca paterna di un amico, avevo cominciato a cercare tra il poco che arrivava nell’unica cartolibreria del paese. E così saltò fuori La chiave a stella di Primo Levi, ben prima di Se questo è un uomo , e un Cassola meno noto, La casa di via Valadier , ambientato, se non erro, negli anni del fascismo. E L’amore borghese di Giorgio Montefoschi, nella linea minimalista di Cassola, che ho ripreso e approfondito qualche anno fa nei suoi titoli migliori, per esempio Il taglio del bosco.

Quando mi chiamarono per la naja ero già un lettore, ossia una persona per la quale i libri, la lettura sono un elemento insostituibile della personalità, quindi della stessa vita. Lo dico senza enfasi, come una costatazione, e anche senza particolare orgoglio, se non quello minimo del falagname o dell’elettricista che ripensa al lavoro degli anni e con soddisfazione può dire di non avere nulla da rimproverarsi. È inutile ripetere che leggere non è un lavoro; può diventarlo, ma di solito non lo è. Per me in certi periodi lo è stato: ho scritto recensioni dietro compenso (e anche senza compenso), ma leggere è un’attitudine, una postura caratteriale che porta a scegliere quotidianamente il silenzio e la solitudine. Non si può insegnare a leggere, diceva George Steiner, così come non si può insegnare la solitudine. Non si può, eppure molti pretendono di insegnare persino a scrivere. Che sia più facile che leggere?

Borges ha più volte affermato che scrivere e leggere stanno alla pari e si vantava, com’ è noto, più di quel che aveva letto che delle pagine che aveva scritto. Ma chissà se era sincero; con Borges non si può mai essere sicuri di niente.

In caserma, nei pochi momenti liberi, non sorvegliati, ovviamente leggevo. Verso maggio, a Milano, finii L’essenza del cristianesimo di Feuerbach, che avevo iniziato a Roma. Mi notò col libro in mano un sardo simpatico laureato in filosofia. Diventammo amici, e nelle libere uscite andavamo insieme in libreria e al cinema. Ricordo discussioni interminabili e i suoi buoni consigli, che avrei fatto bene a seguire. Consigli per il futuro, intendo, quelli di lettura li ho seguiti, e con profitto, credo. Fu lui che mi regalò un saggio breve di Fayerabend? O era Popper?

Abitare a Roma a vent’anni: librerie, piccole e grandi, le bancarelle di libri usati a piazza Esedra, i cinema d’essai e il mio amico Gabriele, studente un po’ pigro di Lettere che mi regala Fortini, Pagliarani, Le occasioni e La bufera nell’edizione Lo specchio di Mondadori. E per un compleanno Il ponte di Hart Crane, che mi fece una grande impressione per la gittata mentale e la tensione lirica controllata sotto cui batteva il metronomo della tragedia.

E poi di seguito certe noiose cose semiologiche che allora mi sembravano obbligatorie, S/Z di Barthes, insomma il purgatorio prima del Piacere del testo, della Camera chiara e dei Frammenti di un discorso amoroso. E romanzi, certo: Pirandello, i primi fulminanti racconti del praghese magro e scuro,Volponi, L’educazione sentimentale di Flaubert, letto nel momento sbagliato (è un libro da leggere a quarant’anni, come Henri Brulard di Stendhal e la Recherche , che ho poi letto all’età giusta). Ma ricordo soprattutto la prima lettura del Grande Gatsby e di Tenera è la notte , che ho riletto non molto tempo fa, e Colazione da Tiffany , racconto di formazione nostalgico venato di ironia e disincanto, con una prosa a scorrimento veloce, ma non tanto veloce da non farti vedere i particolari del panorama, la fila di abeti, il colore delle finestre di quella casa sulla sinistra, le due colline verdi sull’altro lato della strada…​

Poi l’ Ulisse del signor Joyce nella traduzione di De Angelis, l’unica allora disponibile (ma prima I dublinesi , scritti con la tecnica narrativa che era più o meno integra sino a Maupassant) e le poesie di Berryman, un saggio di Miller su Rimbaud ( Il tempo degli assassini ), Le confessioni di sant’Agostino, La nascita della tragedia, Rimbaud, Machado, Mallarmé… Ognuno di questi tasselli, interagendo con il precedente e il seguente mi modificava, lo capisco ora, a distanza di così tanti anni. Contribuiva a farmi diventare quello che sono. I libri ci cambiano, lo sappiamo, talvolta in modo clamoroso e immediato, altre volte, e più spesso, impercettibilmente ma non meno profondamente. Anche, paradossalmente, quelli che non abbiamo letto e non leggeremo, come ha detto una volta Emanuele Trevi.

L’ Orlando furioso ha formato il mio carattere, ha scritto Stendhal. Il rosso e il nero il mio. E se lo rileggessi? Potrei cominciare domani, dopo aver letto le ultime dieci pagine di Le formiche tagliafoglie (Adelphi, Animalia, con fantastiche fotografie a colori di nidi, piste, operaie al lavoro sulla parte visibile della foglia ecc.). In libreria si fanno davvero strani, inaspettati incontri. È per questo che i lettori ci vanno così spesso.​

Di Bac Bac