di Vito Bianco

olio su tela, Giuseppe Agozzino

Questa parte della storia

“Ci stiamo preparando a partire mia moglie e io. Per il Togo. O meglio, per la capitale del Togo. ‘Ma tu sai qual è la capitale del Togo?’ mi ha domandato mia moglie. ‘E dov’è il Togo?’ ho chiesto a mia volta, guardandola con un espressione interrogativa forse leggermente infantile. Allora siamo andati in cantina, dove ammassiamo tutto quello che non ci serve quotidianamente, e dove eravamo sicuri di trovare un grande mappamondo con i mari azzurro scuro e le catene montuose color cioccolato. Abbiamo cercato per qualche minuto e alla fine abbiamo trovato il Togo e la capitale del Togo, la città che raggiungeremo in aereo tra circa trentadue ore.

Abbiamo cominciato a preparare i bagagli due giorni dopo l’arrivo del messaggio dell’avvocato Kenny Brown, un messaggio breve ma esauriente, scritto in una lingua incerta, traballante che riesce però a comunicare l’essenziale, ovvero la notizia che ci cambierà la vita.

L’ho letto e riletto non so dire quante volte, il messaggio dell’avvocato Brown, come se di colpo avessi perso la capacità di intendere la mia lingua madre, la lingua che parlo e scrivo da più di cinquant’anni. ‘Non è possibile’ continuavo a dire, ‘non è possibile’. E mia moglie, come un’eco: ‘Non è possibile, non é possibile’. Eppure quella breve ma esauriente comunicazione giunta sotto i nostri occhi grazie a un mezzo molto moderno non lasciava adito a dubbi, diceva quel che diceva senza giri di parole, senza tralasciare nulla di decisivo ai fini di una inequivocabile comprensione del testo.

‘Riusciremo a restare con i piedi per terra?’ mi ha chiesto mia moglie qualche ora dopo, a tavola, con un tono di voce che tradiva l’interna paura di chi teme di non essere abbastanza forte per sopportare un cambiamento che si annuncia radicale e irreversibile. Voleva dire: continuerai tu a scrivere favole e io a fare maglioni di lana? Non ho risposto. Non lo sapevo. Avevo i suoi stessi dubbi e ho pensato che era meglio tacere. Quindi mi sono limitato a fare un cenno con la testa che poteva significare sia ‘Sì, ci riusciremo’ che ‘Non lo so’; ma anche ‘Ho paura di no’. Non so ​quella delle alternative ha scelto, ma qualunque sia stata se l’è fatta bastare, perché sull’argomento non è più tornata.

Ma questo era cinque giorni fa. Oggi è la vigilia della partenza e non possiamo permetterci né timori né titubanze. Il futuro può aspettare, ci diciamo, mentre per l’ultima volta rileggiamo il messaggio dell’avvocato Kenny Brown.

Che scrive: ‘Buon giorno signor Bianco, sono l’avvocato Kenny Brown, avvocato personale del (tardi) signor Jimmy Bianco, nazionalità del tuo paese, che è morto in un incidente stradale fatale, e lasciato a deposito dollari 7,580 milioni in banca qui in Togo (capitale). Con la presente cerco il tuo consenso Per presentarti come parenti prossimi, poiché hai lo stesso ultimo nome con lui, i dettagli della transazione verranno esplicitati nel mio studio fra sette giorni da oggi nel mio studio in via…al numero… Si attende presto conferma Cordiali saluti avvocato Kenny Brown dello studio Brown e associati’.

Povero Jimmy, ho pensato, anche se non lo conoscevo e la scoperta della sua esistenza faceva tutt’uno con quella della sua dipartita. Poi ho ripetuto: ‘stradale fatale’, aale aale .

Fine di questa parte della storia”. J. Bianco.

L’avvocato Brown

“Siamo finalmente riusciti a incontrare l’avvocato Kenny Brown. Meno male, perché mia moglie aveva cominciato a dare segni preoccupanti di abbattimento, lei che di solito è così forte, ottimista. Da due giorni si rifiutava di uscire dalla stanza doppia del modesto ma dignitoso albergo dove alloggiamo, diceva di essere stanca, di voler finire il maglione dolcevita bordeaux al quale lavora da una quindicina di giorni, quindi da prima che arrivasse il ‘fatidico messaggio’. ‘Esci tu’ mi diceva, ‘fatti una passeggiata distensiva per il quartiere, con il senso dell’orientamento che hai sono sicura che non ti perdi’.

Io facevo finta di accettare il suo incoraggiamento a distrarmi, a fare un po’ di moto, che fa tanto bene alla salute, alla nostra età, ma quando ​arrivavo giù alla hall, mi fermavo, come se mi mancasse il coraggio di fare gli ultimi passi, oltrepassare la larga porta di vetro e uscire in strada. Mi sedevo su una poltroncina di pelle color ciliegia e me ne stavo lì con un bicchierino di liquore locale in mano a osservare il via vai della gente, il cameriere elegante che serve ai tavoli con un sorrisino fisso sul viso da bambino furbo e i riflessi cangianti sul vetro della finestra che avevo di fronte.

Dopo un’ora circa di questa piacevole immobilità, tornavo su e raccontavo a mia moglie di quanto bello e vario era il quartiere. Lei credeva che l’avevo davvero fatta quella passeggiata, o faceva finta, è bravissima a far finta, avrebbe dovuto fare l’attrice, non la lavoratrice a maglia. (In realtà non fa la lavoratrice a maglia, è uno scherzo, lavora come correttrice di bozze in una casa editrice specializzata in libri di sulla vita e il comportamento degli insetti).

Sull’incontro con l’avvocato Brown non c’è molto da dire, anche perché siamo riusciti a capire poco di quello che ha detto. A un certo punto sia io che mia moglie abbiamo smesso di seguirlo: troppi errori di sintassi, troppe deviazioni dalla strada maestra, soprattutto troppo lungo quel monologo che partiva dalla sua nascita in un piccolo villaggio al confine con uno stato di cui non ricordo il nome e finiva (se finiva: lo abbiamo interrotto per chiedergli di andare al sodo) con il racconto dettagliato della vita, della morte e dei funerali del mio parente Jimmy Bianco.

Brown è un uomo nero enorme, con gli occhi rotondi che ridono da soli; le sue mani sono così grandi che con una sola potrebbe circondare tutta la mia testa. Ma noi non ci siamo fatti incantare dalla simpatia.

‘Dove sono i soldi?’ gli ha chiesto senza giri di parole mia moglie, prima di andare via, guardandolo dritto negli occhi (poteva farlo perché eravamo seduti al tavolo d’acciaio di un caffè del centro storico della capitale, dov’eravamo arrivati a bordo di un taxi chiamato dal recepcionista di turno dell’albergo). Il gigante non si è minimamente scomposto, ha fatto un sorriso a tutta bocca e ha detto: ‘Arriveranno’. ‘Quando?’ lo ha incalzato lei.

Riferire le sue spiegazioni tecniche sarebbe impossibile anche nel caso di una perfetta padronanza della nostra lingua da parte dell’avvocato Brown, il gergo tecnico degli avvocati essendo come sappiamo inaccessibile ai non avvocati, che sono per fortuna la maggioranza del genere umano – probabilmente ancora per poco. ​

Mia moglie lo ha ascoltato con una concentrazione quasi soprannaturale, e alla fine ha detto: ‘Va bene. D’accordo’. Io non avevo capito niente, ma di lei mi fido: della sua intelligenza, del suo fiuto. È bravissima, per esempio, a capire dopo pochi minuti se una persona è buona o cattiva, se ci si può fidare oppure no.

Le consumazioni le abbiamo pagate noi, Brown non ha neppure fatto il gesto di cercare il portafogli. Ci siamo salutati con un abbraccio, e alla mia domanda (‘quando la rivedremo?’) l’avvocato altissimo e nerissimo ha risposto: ‘Vi contatterò io, state tranquilli’. Ci siamo riseduti e lo abbiamo guardato avviarsi verso l’uscita, un passo dopo l’altro, ognuno dei quali misurava il doppio di uno dei nostri.

Uscito Brown, scomparso Brown, ho guardato mia moglie, che mi ha sorriso e ha posato una mano sulla mia. Siamo rimasti in silenzio per un po’, a pensare, a non pensare, forse occupati a sbrogliare un ricordo ingarbugliato. Poi mia moglie ha parlato. Ha detto: ‘Stai tranquillo’”. J. Bianco

La terza parte della storia

“Una cara amica, Silvina O., mi ha scritto una lettera affettuosa e incoraggiante dove però non mancano i rimproveri. Dice, tra l’altro, che faccio male a mentire a mia moglie, anche se la bugia è a fin di bene o innocua. È meglio dire sempre la verità, quando è possibile, perché si corre il rischio di fare della menzogna un’abitudine, sostiene la mia amica, che ha molto apprezzato l’ironia sugli avvocati, che secondo lei fa il paio con quella di Tom Hanks in un bel film da piangere (nel senso di commovente) di parecchi anni fa. Vi ricordate? Lui è all’ospedale e l’amico va trovarlo, e per tirarlo su gli dice quella divertente battuta sugli avvocati che adesso non ricordo più con la precisione necessaria alla riuscita di una freddura (e non ho la lettera sotto gli occhi).

Nella lettera mi chiede, quest’amica, come mai non abbia ancora detto il nome della capitale del Togo, se per caso mi diverto a fare il misterioso, e che gusto ci provo. Ma no, Silvina, niente di tutto questo, me ne sono semplicemente dimenticato, ho la testa piena di pensieri (o meglio, di un ​pensiero) e quando trovo un po’ di concentrazione per scrivere vorrei dire tante cose ma poi finisco per dire solo una minima parte di quello che ci sarebbe da dire.

E non fatti (quelli sono il meno, e in effetti le sole cose che accadono accadono nelle nostre teste) ma riflessioni, impressioni, descrizioni di facce e luci e ombre e tutto l’alternato fluire delle sensazioni di un viaggiatore in un paese straniero del quale non conosce la lingua, che per lui (per me) sono puro suono, o suono allo stato puro, possibilità sonore, ritmo vocale privo di contenuto semantico, se così si può dire. Noi siamo qui, da troppo tempo ormai, e apparentemente aspettiamo di diventare ricchi, Silvina; ma è davvero quello che vogliamo?

Sì, dirai tu, e l’avrei detto anch’io fino a pochi giorni fa. Ma ora? Ora non lo so più. Non lo so più se voglio diventare ricco; e come me non lo sa più anche mia moglie. Nella lettera mi chiedi di farti sapere come sta, e di salutartela con molto, molto affetto. L’ho fatto. L’ho abbracciata per te, come mi hai chiesto di fare. Quanto a sapere come sta. Se devo essere sincero, non lo so.

Mi sorride, come sempre. E lavora a maglia, come sempre (bozze da correggere non ne ha, o, se ne ha non ci pensa). Parliamo poco; cerchiamo di non toccare l’argomento Brown, ovvero l’argomento eredità. Ma non è per niente facile, come chiunque può senza sforzo immaginare.

Passano i giorni, aumentano le spese, e della città non abbiamo visto quasi nulla. Per dirne una: sui depliant che l’albergo mette a disposizione degli ospiti si parla molto di uno zoo che ospita animali rarissimi. Non ci siamo ancora stati. Così come non siamo stati al Luna Park, il più grande e straordinario del mondo, a quanto dicono; né abbiamo ammirato l’enorme plastico della città al tempo in cui era capitale del Togoland, il nome della regione sotto il dominio tedesco.

Stasera però abbiamo deciso di uscire. Cena al ristorante giù all’angolo (cucina tipica togana) e poi cinema. Sì, cinema, nonostante che della lingua che parleranno i personaggi della storia io e mia moglie non conosciamo che due o tre frasi, una delle quali è un saluto, Buon giorno. Ma che importa? Ci sono le immagini. Liberati dall’obbligo di capire le parole dei dialoghi, potremo goderci le immagini come mai prima d’ora. Cinema muto. Cinema allo stato puro. Ti voglio bene anch’io, Silvina, e se non te l’ho mai detto è perché sono un po’ timido, dovresti saperlo dopo tutti questi anni. ​

‘Allora, hai finito di scrivere?’ mi sta dicendo mia moglie, e mi guarda dallo specchio ovale davanti al quale si sta ritoccando il trucco. ‘Sì, ho finito, chiudo l’ultima frase e sono pronto per uscire’ rispondo, battendo sui tasti queste ultime parole. Ma prima di finire davvero, voglio fartela io una domanda: a te piacerebbe diventare ricca?” J. Bianco

La versione di A.

“No, così non va, non può andare. Sinceramente non vedo la ragione di quelle invenzioni. Innocenti, forse, prive di malizia e secondi fini, ma per me hanno qualcosa di incongruo per non dire di inquietante. Le passeggiate mancate, per esempio. E il resoconto inventato un’ora dopo, per farmi contenta. Eppure dovrebbe ricordarsi che la franchezza è sempre stato il fondamento del nostro matrimonio. Perché tradirlo così, senza una vera necessità ad attenuarne la trasgressione? Lo so che è un tipo bizzarro, un solitario che trova il massimo del piacere nello stare seduto a guardare: cose e persone, soprattutto persone.

‘Svegliati’ ogni tanto gli dico, ‘che la vita passa e ti lascia alla fermata. Cosa te ne fai di questa metafisica silenziosa?’ ‘Metafisica? La metafisica è la conseguenza di una indisposizione, e io, mia cara, non sono indisposto e godo di un’ottima digestione’ mi risponde di solito lui, con quel sorrisino ironico insopportabile. Tutto questo mistero, poi! Irritante come il sorrisino che mi fa venire la mosca al naso.

Il nome della capitale continua a non dirlo. Così come non dice da nessuna parte che io fin dall’inizio ho manifestato un certo sospetto sullo strano messaggio con il quale l’avvocato gli comunicava la notizia della morte di tale Jimmy Bianco e relativa eredità. ‘Lasciamo perdere’ ho detto subito, ‘credi davvero che una simile fortuna possa essere toccata proprio a noi?’

Perché no?, diceva lui, l’ingenuo, il filosofo senza filosofia. Dopo due giorni di discussioni, vedendo che non c’era verso di fargli cambiare idea, gli ho detto di sì, che l’avrei accompagnato in questo ridicolo viaggio. E prima che mi passi di mente voglio dire che non lavoro a maglia; perlomeno non qui. Correggo le bozze di un libro che uscirà tra un mese per i tipi dell’editore Lozano, per il quale lavoro da una decina d’anni. È ​un libro sulla vita delle formiche scritto da un mirmecologo francese, frutto di uno studio di una comunità di formiche andine durato un anno. È incredibile quello che riescono a combinare quegli animaletti. Si può dire che non lascino niente al caso, e che l’organizzazione diciamo politica delle comunità in cui si associano non ha nulla da invidiare a quella umana; anzi, da un certo punto di vista, la loro è più definita, perfezionata, dotata di un meccanismo talmente rodato da prevedere ogni possibile intoppo e relativa soluzione.

E questo perché le formiche non conoscono alcuna forma di passione o emozione. Sanno quello che devono fare e lo fanno; e quello che a noi umani sembra altruismo, non è altro che efficienza del meccanismo. Qualcuno lo troverà triste; io invece lo trovo rassicurante, rilassante: sapere che le cose andranno sempre come devono andare, libera dall’ansia, apre spazi di serenità che gli uomini non riescono nemmeno a immaginare. Approfitto di questa intromissione per mettere in chiaro ancora due punti. Il primo: al cinema non siamo mai andati. Che gusto ci sarebbe stato a vedere un film dei cui dialoghi non capisci nemmeno una parola? Ci sarà andato lui. Io di certo no. Il secondo: Silvina O. non esiste, è una sua invenzione. O meglio, è esistita una Silvina Ocampo (se la O sta per Ocampo), ma tanti anni fa, quindi lui non può averla conosciuta.

È stata una scrittrice, moglie di Bioy Casares, il miglior amico di Borges. Non so come prendere la faccenda. Capisco, scrive favole e non so cos’altro, ma che bisogno c’è di tirare in ballo morti famosi? È uno scherzo, un’allusione? E se sì, a cosa? Ci penso da giorni ma una risposta convincente non sono riuscita a trovarla. Che abbia voluto dire, alla sua contorta maniera, che in fondo tutto ciò che riusciamo a immaginare ha una sua particolare realtà, che siamo i personaggi che ci figuriamo di essere e tutto il resto è buio?

Ecco che mi metto anch’io a filosofare. (Stavo per dimenticarmene: la frase sulla metafisica che ho menzionato sopra è una citazione; viene da una lunga poesia di Alvaro do Campos, Tabaccheria , quella dove l’autore dice ‘lui lascerà un’insegna, io lascerò dei versi’).

Mi piacerebbe studiare un formicaio. Lo studio delle formiche può riempire una vita intera, far dimenticare tutto il resto. Intanto finisco di correggere le bozze del libro del mirmecologo francese, poi si vedrà. Scusate l’intrusione, ma non sono riuscita a resistere: non è giusto, né bello stravolgere in questo modo i fatti, mascherare così persone vere fino a renderle irriconoscibili”. A. Bianco ​

Biglietti scritti a mano

“Forse tutta la storia, il messaggio, il viaggio e queste settimane togane non sono altro che una prova di pazienza e un’occasione per mettere alla prova le nostre convinzioni. La prova, naturalmente, ha a che fare col tempo, come tutte le prove che contano: qui scorre con una lentezza che presto diventa esasperante, ti costringe a rivedere tutto quello che sapevi sullo stare fermi ad aspettare qualcosa di concreto che via via va sfumando in direzione dell’irreale. Giornate interminabili, tramonti che avanzano al rallentatore, luce ferma per troppe ore. Stiamo consumando il tempo e forse tra non molto il tempo consumerà noi. Ma è possibile che il messaggio e il conseguente viaggio altro non siano stati se non un’esperienza, un percorso che ha come meta una nuova consapevolezza, che però ancora non so quale sia.

Mia moglie, la donna che lavora a maglia e diventa più laconica ogni giorno che passa, riderebbe se leggesse quest’ultima considerazione. Riderebbe e mi prenderebbe in giro. Parlerebbe di inutile filosofia, loderebbe l’ordinata vita delle formiche, ripeterebbe che non faccio che perdere tempo dietro alle chimere. Ah, ecco che torna questo benedetto tempo. E vi domando: che cos’è il tempo? Io non lo so ma lo sento sulle spalle come si sente un peso leggero ma costante.

Il tempo è invecchiare? Sembrerebbe, ma non è certo. Fuori o dentro? Il tempo è la distensione, pare dicesse un filosofo antico. Quindi, se non ho capito male, più ci distendiamo andando incontro a quel che ancora non c’è, più tempo d’orologio produciamo.

Ieri sera siamo andati a cena con Brown. Una cena in piedi a casa di una certa nobildonna di antico lignaggio, a detta dell’avvocato. C’erano una trentina di persone, e su un lungo tavolo coperto da una tovaglia rosso porpora erano allineati piatti diversi e vini bianchi e rossi.

Noi (io, mia moglie, e il gigantesco procuratore legale) ce ne siamo stati per quasi tutto il tempo a mangiare in piedi in un angolo dell’enorme salone; a turno qualcuno si avvicinava al tavolo e riempiva i piatti e li trasportava in equilibrio precario all’angolo dove aspettavano gli altri due. Brown divorava come se fosse digiuno da una settimana, il piatto ​sostenuto dalla smisurata mano sinistra, nella destra la forchetta o il cucchiaio, il bicchiere di vino a poca distanza sul davanzale di una grande finestra. La signora non l’abbiamo mai vista, ed è anche possibile che Brown non fosse stato neppure invitato, figuriamoci io e mia moglie. Ma in quella confusione era difficile che qualcuno facesse caso al nostro terzetto, in verità assai curioso.

Dei soldi non abbiamo parlato. A essere sincero, ho avuto la tentazione di toccare l’argomento, ma ho rinunciato, ho pensato che non era il caso, che era meglio godersi la serata, per parlare di soldi ci sarebbe stato….tempo. Forse abbiamo perso un’occasione; forse quella era la situazione ideale per far venire allo scoperto quell’altissimo avvocato, se è davvero un avvocato.

Verso mezzanotte, sazi e un po’ ubriachi, siamo andati via. Mia moglie cantava le strofe struggenti di un tango; Brown ‘Una furtiva lagrima’, io recitavo male una poesia di Cortázar: ‘Il momento del fuoco non lasciarlo/passare invano. Se il fuoco non dura/niente ha speranza di durare’. Adesso mi domando cosa significa per l’autore la parola ‘fuoco’, il ‘momento del fuoco’: anche stavolta non ho una risposta, ma trovo interessante che si possa seguitare a porre domande, a considerare sempre aperta una questione, un fatto dai contorni poco chiari, un sentimento che non si lascia fermare una volta per sempre.

Prima di dimenticarmene devo dire dei biglietti di Brown, due al giorno da ormai una settimana. Strani biglietti, scritti a mano, con parole indecifrabili e punti esclamativi. Cosa dicono? Nulla; quasi nulla. Sembrano i deliri di un folle, le lambiccate circonlocuzioni di una mente che fatica a tenere la presa sulla realtà. Eppure, ho pensato, qualcuno potrebbe dire che i folli siamo noi, mia moglie e io, che, con una stramba, desiderosa irragionevolezza siamo partiti per la capitale del Togo senza nemmeno salutare gli amici più cari”. J. Bianco

È così che finisce

“Ci prepariamo a tornare a casa mia moglie e io. Il gioco è bello se dura poco, ha detto lei ieri sera a cena nel ristorante vuoto dell’albergo. Nell’ultima settimana c’è stato uno svuotamento progressivo di questa ​dignitosa “struttura di ricezione”, come se un allarme silenzioso sull’imminenza di una guerra o contagio avesse raggiunto tutto gli ospiti tranne noi.

Abbiamo mangiato lentamente e una imprevista tristezza circondava il tavolo e le nostre teste chine sui piatti. Guardavo attraverso la trasparenza del bicchiere le dita sottili di mia moglie, le unghie dipinte di rosso, l’anello un po’ consumato all’anulare. Cosa ci insegna questa storia?, mi sono domandato. Ho posato la forchetta sul bordo del piatto e ho detto: ‘Cosa ci insegna questa storia?’

Mia moglie mi ha guardato, ha sorriso, ha battuto con l’indice due o tre volte sul tavolo, e, scandendo le parole, ha risposto: ‘Niente. Non ci insegna niente’. Il tono era quello di chi pronuncia la frase definitiva, quella che chiude la discussione e non ammette repliche. ‘Ti ricordi la mattina che ho ricevuto il messaggio?’ le ho chiesto. Lei non ha risposto e ho capito che non aveva voglia di parlarne. ‘Godiamoci queste ultime ore di permanenza in un paese che quasi certamente non rivedremo più’ ha suggerito.. ‘Sì, hai ragione, godiamocele’ ho detto io, ma con un tono dimesso, stonato, perché mentre lo dicevo avevo già cominciato a sentire la nostalgia della capitale, della sua luce morbida e sfumata, del suo silenzio serale e notturno, degli acquazzoni improvvisi e di corta durata che lucidano l’aria.

Così tra non molto io e lei saremo seduti ai due lati della finestra; io con penna e taccuino, lei con i ferri o le bozze di un libro su chissà quale insetto a me sconosciuto. Guarderemo la pioggia scivolare sul vetro e ripenseremo a un’altra pioggia; e a un certo momento le due piogge si fonderanno a formarne una sola, che non sarà né quella della vasta città in cui viviamo da sempre, né quella della calda e meno vasta capitale del Togo.

Tutto allora ci sembrerà nient’altro che un sogno fatto a occhi aperti: il messaggio, il volo, l’albergo, l’avvocato Brown, imponente e nero, con la risata da tenore che faceva sussultare i bicchieri vicini e spaventava i bambini. ‘È così che finisce, secondo te?’ ho detto. ‘Così; e come se no?’ ha replicato lei. Si è allungata verso di me e mi ha fatto una carezza”. J. Bianco ​

Di Bac Bac