di Vito Bianco

Giuseppe Agozzino, tecnica mista

Interruzione

Lodovico è un giunco alto due metri. È cinese ma parla romanesco meglio del nonno di Leopoldo, romano delle fatidiche sette generazioni. Quando ti parla non sai mai se a parlarti è uno stupido o uno che la sa più lunga della media; insomma, non capisci se ci fa o c’è, come dicono a Roma, ma ormai non solo a Roma. L’altro giorno, per esempio, eravamo seduti a un tavolo fuori al bar Lo sceriffo, chiacchierando del più e del meno, cioè del prossimo campionato di calcio e della campagna acquisti della Lazio, la squadra per cui teniamo tutt’e due. Dopo una sorsata lunga di birra, che lui chiama alla romana bira , mi guarda dritto con quei suoi occhi che ogni tanto mi fanno paura, e mi fa: adesso ti racconto una cosa che non ci crederai. Però te la racconto lo stesso. E comincia a dirmi del padre di sua madre, di come era stato arruolato nell’esercito americano dopo aver ottenuto la cittadinanza – emigrato dalla Cina – e poi partecipato allo sbarco in Sicilia nel ’43. Era stato ferito e ricoverato in un ospedale di Licata, una cittadina in provincia di Agrigento, dove le truppe statunitensi avevano acquartierato un consistente nucleo di forze. “Consistente nucleo di forze” dice Lodovico, un’espressione insolita sulle sue labbra. L’avrà sentita più di una volta e ha finito col farsela restare in mente; senz’altro gli sarà piaciuto il suono: consistente nucleo di forze , avrà ripetuto, rigirandosi in bocca le sillabe, per sentirne meglio il sapore. Si ferma come per far mente locale, beve un altro sorso dal boccale, fa scrocchiare le dita di una mano. Poi di colpo si alza e dice: me ne devo andare, me so’ ricordato che c’avevo una cosa da fa… Scusami. E la storia?, dico. Un’altra volta, risponde. Eppoi tanto non ci avresti creduto. E mi saluta col saluto comunista.​

Donne

Le uniche donne che ricordo ancora, di notte, quando non mi riesce di prendere sonno, sono quelle che alle mie timide carezze hanno preferito quelle decise di un altro. Germana, per fare un nome. Letizia, per dirne un altro. Silvana. Federica. Andreina. Mi fermo. L’elenco sarebbe lungo ma ora non ho tempo da perdere, mi aspettano gli amici per la partita di scopone, senza di me non cominciano, e io non voglio farli aspettare. Insomma: delle poche che ho avuto non mi è rimasto niente, perse anche le foto che mi avevano dato a futura memoria; le altre, invece, potrei, se volessi disegnarle intere e precise fino all’ultima macchia nel punto più nascosto. Ma non so disegnare, perciò devo accontentarmi di farmele scorrere davanti nelle not di insonnia, quando la sola cosa che ti ammansisce è la vita irrequieta del passato, tutto quello che hai fatto molti anni prima e che ora, ripensandoci, quasi non ti sembra vero.​

Di Bac Bac