Guido Ruotolo

foto di Tano Siracusa

 Doveva essere un giorno della fine di febbraio, del febbraio 2011. “Mi raccomando qualsiasi cosa succeda o troviate all’aeroporto, aspettate. Vi devono venire a prendere”. Quella dell’ambasciatore Hafed Gaddur – che proprio in quei giorni “rivoluzionari” stava per passare con l’opposizione al regime, insieme a un gruppo di diplomatici guidati dall’ambasciatore libico alle Nazioni Unite, Abdulharam Shalgham – era una preoccupazione che sembrava un presentimento.
Quando atterrammo a Tripoli, infatti – eravamo il primo gruppo di giornalisti occidentali – la scena che si presentò fu terribile. C’era talmente gente accalcata ovunque, sdraiata a terra che formava un tappeto “vivente”, che non si riusciva a camminare se non scavalcando corpi di donne, uomini, vecchi.
Era un popolo arcobaleno, che arrivava dall’Estremo Oriente, dalle longitudini e latitudini più lontane. Era il popolo che lavorava nell’industria petrolifera o in qualsiasi attività produttiva in Libia. E come gli stormi di uccelli si allontanono da una imminente catastrofe meteorologica in arrivo, così i lavoratori stranieri cercavano in tutti i modi di abbandonare la Libia.
Ed erano decine di migliaia dentro e fuori l’aeroporto.
In quei momenti rivivevo le immagini trasmesse un milione di volte in televisione della evacuazione dell’ambasciata americana a Saigon, ormai pronta a cadere in mano ai vietcong, con gli elicotteri che si alzavano in volo con grappoli di fuggitivi che a un certo punto perdevano la presa andandosi a schiantare al suolo.
Ecco, questa era la sensazione. I militari con i fucili spianati ci invitavano a non riprendere gli interni dell’aeroporto con videocamere o macchine fotografiche. Cosa che subito fece invece Duilio Gianmaria, inviato Rai, armato di sahariana e piccola videocamera, che gli fu subito sequestrata.
Pensavo che la cosa più saggia da fare fosse quella di aspettare i funzionari del regime di Gheddafi, che a Tripoli ancora non era stato sconfitto. E invece gli inviati coraggiosi fremevano per raccontare la rivoluzione dall’albergo di Tripoli. E dunque raggiungemmo l’esterno dell’aeroporto dove finalmente i satellitari prendevano. L’invito dell’ambasciatore Gaddur di aspettare fu disatteso e i primi “narratori” della primavera libica montarono sui taxi.
 Avvicinandoci alla capitale, trovammo sulla strada i filtri delle milizie gheddafiane. E fummo fermati a un posto di blocco. Scendemmo tutti dai taxi, giovani miliziani ci presero satellitari e computer. E incominciarono a gridare. Strattonarono il povero Fabrizio Caccia del Corriere della Sera e lo spinsero con i kalashnikov dentro una garitta. Volò anche un ceffone che gli fece cadere gli occhiali. Povero Fabrizio, lui solo dentro la garitta. Mentre i giornalisti del “io non ho paura” facevano finta di nulla, mi sentii in dovere di entrare nella garitta. Avevo un’arma da spendere: il mio passaporto. Cercai di fargli capire con le decine di visti libici (gheddafiani) che avevo collezionato sul mio passaporto, che eravamo giornalisti amici della Libia.
Non so se ebbi un ruolo ma dopo un brutto quarto d’ora fummo rilasciati, ci restituirono il maltolto. E arrivammo in albergo. Non era l’accogliente “Corinthia” che decine di volte mi aveva ospitato. E il clima era decisamente teso.
Provavo un certo malessere a essere un giornalista “embedded”. Funzionari del regime ferito a morte di Gheddafi ci controllavano stretti. Ricordo un venerdì dietro la piazza della Rivoluzione, accanto alla ex Cattedrale del Sacro Cuore diventata moschea, sentimmo spari, mitragliate, gente che correva. Ci fecero salire a bordo di un van per allontanarci dalla zona.
Quelle due settimane a Tripoli furono molto strane. Si sentivano spari di notte e poi di giorno la vita sembrava scorrere come se nulla fosse. Al terzo giorno decisi di lasciare il gruppo e riparai nella palazzina amica della nostra ambasciata, dove erano alloggiati e avevano gli uffici le nostre forze di polizia di collegamento (immigrazione, Sco, etc…).
Se non lo ricordassi tradirei me stesso. Di quelle due settimane scorrono immagini amiche: intanto il gruppo “Eni-Africa” aveva doti culinarie straordinarie, in grado di fare orecchiette, pasta lunga, di tutto e di più. E ricordo Carmelo e Andrea, oltre a Vincenzo. Tre poliziotti “umani”.
Uscivamo la mattina presto per respirare il clima della città. Uscite mirate per parlare con confidenti, amici. Dal tetto dell’ambasciata si vedeva il porto, l’arteria sospesa, i pik-up con i miliziani.
Gheddafi aveva ormai abbandonato Tripoli, anche i figli. Avevo conosciuto e incontrato diverse volte Saif el Islam, la spada dell’Islam, il figlio “riformatore” che era considerato il delfino del Colonnello. Prima della Primavera araba, aveva lavorato per una democratizzazione del mondo della informazione, sponsorizzando una televisione che però frequentemente non trasmetteva perché il padre ne decretava la sospensione della messa in onda. E, soprattutto, aveva aperto il dialogo con gli islamisti.
La ferita aperta era ancora profondissima. Era il 29 giugno del 1996 quando i carnefici di Gheddafi aprirono il fuoco uccidendo 1.270 detenuti nel carcere di Abu Salim. Detenuti in gran parte islamisti, in sciopero perché arrestati senza poter parlare con avvocati o incontrare i familiari. La protesta si trasformò in rivolta. Morirono anche un paio di poliziotti e la vendetta di Gheddafi fu implacabile. Durante l’ora d’aria, nel cortile, fece aprire il fuoco con i mitragliatori.
Una decina d’anni dopo, Saif el Islam ottenne la liberazione e l’apertura del dialogo con gli islamisti.
C’era chi vedeva in Saif el Islam una rottura nella continuità rispetto al padre. Comunque, con i primi colpi di mitragliatore tutti i propositi riformatori svaporarono. Saif, ricordo, concesse una intervista a un network internazionale. Il resto della famiglia scappò. Diversi figli del colonnello furono uccisi, gli altri imprigionati. Solo la figlia avvocato riparò in un Paese amico.
La rivoluzione trovò un primo epilogo il 20 ottobre del 2011, quasi otto mesi dopo i primi segnali della rivolta, quando Gheddafi fu catturato a Sirte, ucciso e lapidato. Fu una operazione di intelligence francese.
La transizione libica era lungi dall’essersi conclusa, tanto che è ancora aperta a dieci anni dai primi movimenti insurrezionali.
Tripoli, in quei primi giorni della “primavera” araba era bugiarda. Sembrava che Gheddafi avesse il pieno controllo della città e che, dunque, gli oppositori si concentrassero solo nella Cirenaica. Prefigurando quasi uno scontro tra la Tripolitania e la Cirenaica. E invece sapemmo dopo dei massacri in quei giorni anche a Tripoli. E che solo una politica di alleanze tra le varie milizie forti della Tripolitania rappresentò la carta vincente per la caduta del regime e non per la pacificazione nazionale.
Quello che colpisce a distanza di tanti anni è che in quei giorni drammatici il popolo dei migranti continuava il suo esodo. Ho chiesto a Mario Viola delle relazioni esterne del Ministero dell’Interno i dati riassuntivi degli sbarchi in quegli anni. Dalla Libia partirono 28.431 migranti nel 2011, 5.087 nel 2012, 27.314 nel 2013, 141.484 nel 2014. Due anni dopo, 162.258. Impressionante no? Come se i bombardamenti e i combattimenti non li sfiorasse. O, piuttosto, anche loro facevano parte del bottino di guerra. Stavano diventando tragicamente strumenti di accumulazione di risorse per finanziare le milizie e i suoi armamenti.
E anche vittime di violenze inaudite. In quei primi mesi di rivoluzione morirono anche nostri lavoratori che cercavano di raggiungere Tripoli o i luoghi di lavoro entrando in Libia dalla Tunisia. A Sabratha furono anche sequestrati gli italiani.
Terribile. Solo oggi, dieci anni dopo, la produzione del petrolio è risalita al tetto fissato dall’Opec, un milione e mezzo di barili al giorno. Se il piano del dialogo e della riconciliazione andrà avanti così come stabilito e sotto l’egida delle Nazioni Unite, tra un anno la Libia tornerà a votare.
Migranti e cioè fantasmi, umani senza diritti e dignità. Non solo sulla terra ferma, in Libia, ma anche in mare i migranti erano vittime, osservatori, strumenti di guerre ideologiche, di respingimenti in mare, di massa di manovra per scelte politiche.
La svolta c’era stata il 3 ottobre del 2013, con la strage di Lampedusa i suoi 368 morti. L’Europa si svegliò dopo anni di indecoroso silenzio. E la gestione della immigrazione entrò prepotentemente nell’agenda europea.
Ma intanto la mia prima permanenza nella Tripoli diventata terra di nessuno dove le milizie rivoluzionarie cercavano di stanare le bande di Gheddafi, si concluse con un ritorno a Roma con un volo militare per trasferire profughi del Corno d’Africa. Era la fine del febbraio 2011.

Di Bac Bac