di Vito Bianco

Pubblichiamo la seconda parte del racconto di Vito Bianco

  

Un mese e mezzo dopo la scoperta del rotolo di grasso Guido pesava ottantacinque chili, cioè venti  più del suo peso forma. Una sola volta era arrivato a settanta, molti anni prima, nella fase conclusiva di una convalescenza seguita a una lunga malattia. Nonostante le corse, nonostante la dieta ipocalorica che aveva cominciato subito, Guido ingrassava con una progressione allarmante. Il medico di famiglia, che non capiva quale poteva essere la causa, allargò le braccia e gli prescrisse una serie di analisi, da quelle più comuni ad altre dai nomi complicati. Tutte diedero esito negativo: Guido era perfettamente sano, tutti i valori erano nella norma.

   Non capivamo; nessuno capiva. Procedevamo nella fitta nebbia del timore e dell’incertezza, dentro cui l’unica cosa certa era questa: Guido continuava ad ingrassare; o meglio, a gonfiarsi. E lo faceva a una velocità tale che alla fine del secondo mese pesava novantacinque chili. Povero Guido: ormai faceva fatica a compiere le azioni più semplici, quelle che non molto tempo prima eseguiva con la facilità inconsapevole delle persone fisicamente integre.

   Per esempio, chinarsi a raccogliere da terra una forchetta; o alzarsi dalla poltrona; oppure salire i cinque gradini di una scala, era diventato complicato e faticoso, ma anche causa di nervosismo e malumore.

Non scorderò mai la mattina in cui scoprimmo che il suo corpo era diventato così grande da non riuscire a passare per la stretta porta dell’ascensore. Usciva per andare a lavoro, in banca. Avevo chiuso da pochi minuti la porta di casa, dopo averlo baciato sull’uscio, quando il suono del campanello mi fece tornare indietro. 

   Aprii la porta e me lo vidi davanti, affranto, piegato dalla vergogna, rosso in viso per lo sforzo che aveva fatto tentando di incunearsi tra le ante mobili dell’ascensore. Dopo qualche minuto di quella che somigliava a una dura colluttazione, Guido si era dovuto arrendere e, senza neanche pensarci, spinto da una specie di istinto, era tornato sui suoi passi, da me.

   Non sono riuscito a entrare, furono le parole che disse non appena ebbe ripreso fiato. Io lo guardavo a bocca aperta, come se non lo riconoscessi. Non riuscivo a parlare. Restammo lì, uno di fronte all’altro, per non so quanto tempo, e mentre passavano i secondi sentivo che sarebbe potuto durare così in eterno, tanta era la paura che avevo di quello che ci aspettava fuori da quell’immobilità.

   Lo presi per mano e lo accompagnai fino alla sua poltrona preferita. L’aiutai a sedersi e andai al telefono per avvertire il direttore che Guido si era sentito male e non poteva andare, come faceva tutte le mattine, in ufficio. Il direttore fu molto comprensivo, disse che la salute ha sempre la precedenza e gli raccomandava di riguardarsi, augurandogli una rapida guarigione. Tornai in soggiorno e lo trovai con un fazzoletto di cotone in mano: lentamente si asciugava il sudore sulla fronte e intorno alla bocca, e prima, forse, anche qualche lacrima di rabbia e umiliazione.

   Dopo quella mattina, niente fu più come prima. Le nostre vite presero un ritmo rallentato, di freddo e rassegnato automatismo. Qualcuno aveva cambiato la frequenza del metronomo, e noi ci eravamo adattati istantaneamente, simili, in questo, a una coppia di affiatati ballerini da competizione.

   Quando la bilancia fece apparire il numero 105, la nostra esistenza somigliava già a quella di due reclusi. Guido aveva preso un’aspettativa di un anno, e lo stesso avevo fatto io con la scuola. Anche i pochi amici che ci erano rimasti vicini avevano diradato le visite, con sollievo di Guido che soffriva di sentirsi compatito da quelli che un tempo lo avevano ammirato per la forza d’animo e il senso dell’umorismo e che ora lo vedevano ridotto a un povero fantoccio inerte, muto.

   L’arrivo dell’estate vide Guido a quota centoquindici. Sudava, sbuffava, ogni minimo gesto gli costava fatica. Guido, che nei mesi precedenti si era adattato facilmente alla vita ritirata che aveva scelto, col caldo gli tornò la voglia di uscire. Ma portarlo fuori non sarebbe stato per niente semplice, e questo lo capiva anche lui.

   Di fare a piedi le scale non era il caso di parlare. Allora affittammo un montacarichi che, raggiunta una  finestra del nostro quarto piano, accolse gentile il corpaccione di mio marito che smaniava per la voglia di uscire all’aria aperta. Una volta in strada, la  carrozzella elettrica che avevamo preso in affitto lo portò a spasso, con me accanto che gli tenevo stretta la mano.

   Finalmente lo vidi sorridere. Mi stringeva a scatti la mano e ripeteva: Mi ci voleva proprio, mi ci voleva proprio. A un certo punto fermò la carrozzella, alzò la testa e disse: Abbiamo fatto bene a uscire, no?

   Certo che avevamo fatto bene. Anche perché quella prima uscita fu anche l’ultima. Sette giorni dopo Guido era arrivato a centoventicinque chili, e il medico che venne a visitarlo gli prescrisse delle medicine e raccomandò riposo assoluto. Guido, a sentire la parola riposo ebbe uno scatto d’umorismo: Ha fatto bene a dirmelo, perché m’era venuto in mente di fare due giravolte alla sbarra. Il dottore rise. Io no, e ora a pensarci mi dispiace, perché a Guido avrebbe fatto piacere sentire la mia risata, che gli aveva sempre messo allegria. Ti ho sposata per allegria, mi diceva spesso, citando il titolo di una commedia, specie i primi tempi dopo il matrimonio.

   Guido sprofondato nella grande poltrona sembrava un gigantesco Budda di gelatina. Era maestoso, imponente, silenzioso e saggio. Se parla così poco, mi dicevo, di sicuro pensa tanto e bene. Forse questa disgrazia è la via tortuosa e sofferta che lo condurrà alla perfezione. Non gli ho mai chiesto a cosa pensasse per timore di infastidirlo, di rompere  un equilibrio che sembrava saldo ma che sospettavo fragile.

   Ora mi pento di non averlo fatto. Forse speravo che prima o poi sarebbe stato lui a sentire il bisogno di confidarsi, di rivelare a me, che sono sua moglie, la via imboccata dai suoi pensieri. Ma non lo ha fatto, e ora mi rimprovero di non essere stata io a fare il primo passo; di non avergli detto che con me poteva parlare, che non c’era niente che non avrebbe potuto dire alla donna che aveva sposato per allegria.

   Stamattina gli ho fatto il bagno. Non è stato facile; non è mai facile. Qualcuno ha un’idea di cosa vuol dire fare il bagno a un uomo che pesa centoquaranta chili? È  come fare il bagno a un bambino mostruosamente sviluppato nel fisico ma che non sa dirti quello che vuole. Sì, perché Guido è ridiventato il bambino che è stato, un bambino gigantesco che preferisce rotolare anziché camminare e dire a gesti quello che potrebbe sforzarsi di dire a parole.

   I dottori dicono: Non possiamo essere sicuri di niente. È probabile che abbia deciso di non parlare, se è corretto parlare di decisione in un uomo cosi dolorosamente provato dalla malattia. Ma non si può escludere che siano stati il trauma e la sofferenza a provocare l’afasia.

   Adesso è qui di fronte a me, e sembra che capisca che sto parlando di lui, perché mi sorride, mi sorride in un modo nuovo che però conserva qualcosa del sorriso del Guido magro; e il nuovo e il vecchio sorriso si incontrano per un momento in un angolo della bocca, che non parla più e non bacia più.

Di Bac Bac