di Alfonso Gaglio

foto di Tano Siracusa

Ho ascoltato attentamente la lunga intervista-video concessa da Fausto D’alessandro a BacBac e sono rimasto francamente sorpreso. Sono legato al dott. D’Alessandro da un rapporto di stima a distanza da molti anni per la sua onestà intellettuale. In questa intervista tuttavia mi sembra che abbia portato avanti un’analisi distorsiva della verità storica sul merito di due grandi filoni di giudizio: i ruoli delle neuroscienze e di Franco Basaglia nel processo che ha portato al superamento del manicomio.

Fausto D’Alessandro sostiene che non bisogna dare un giudizio di scandalosità sulla realtà dei manicomi dalla data della loro nascita in Italia nel 1904 fino agli anni ’50, nizio dello sviluppo delle neuroscienze. Si, è vero, non bisogna cedere a un giudizio morale sul manicomio. Ma non possiamo sfuggire a un giudizio tecnico. Il mio è che il manicomio è stato un spazio di intervento tecnico gravemente antiterapeutico. Nessuna terapia sensata era possibile se a uomini e donne lì internati, con l’ausilio di apparati legislativi spesso degenerati da forzature consolidate per prassi, venivano tolti i diritti civili, la libertà di movimento, la possibilità di relazioni sociali, la libera sessualità, il reddito, il lavoro, la privacy, i vestiti individuali. Con una vita giornaliera scandita da un corredo ossessivo di regolamenti, controlli, blocchi di muri, sbarre e cancelli, porte chiuse o aperte esclusivamente dal personale di cura, una enorme promiscuità concentrazionaria, camerate notturne con forti lezzi di feci e urine, cibo scadente. I manicomi erano luoghi dove non solo non si riusciva a curare le malattie per cui vi si entrava, ma dove alla malattia originaria si sovrapponeva il “doppio di malattie da internamento istituzionale”. Fausto D’Alessandro sostiene che è stato lo sviluppo delle neuro scienze, a partire dagli anni ’50, a rendere ineludibile il superamento dei manicomi. Ma questa sua tesi è smentita dalla verità storica: i manicomi sono stati chiusi per legge in Italia nel 1978. E allora non si capisce come mai, nonostante generose prescrizioni di psicofarmaci a tutti gli internati nei manicomi per circa 30 anni, gli stessi manicomi abbiano continuato a mantenere la loro ineluttabile esistenza con tutto il loro portato distruttivo, nell’arco di tempo di quei 30 anni. E ancora: se se è indubbio che le neuroscienze hanno avuto un importante sviluppo negli ultimi 40 anni, come mai non hanno reso possibile la fine dei manicomi nel resto dell’intero mondo, dove continuano a rimanere in vita indisturbati, o, anzi, coperti e benedetti dalle legislazioni? E allora dove consiste tutto questo ruolo rivoluzionario svolto dalle neuroscienze nella pratica di superamento dei manicomi?

La seconda tesi è che Basaglia nella sua pratica non abbia svolto un lavoro da psichiatra ma tutt’al più da filosofo, da intellettuale che ha dato un contributo importante ai malati mentali sul terreno dei diritti civili. Ma nulla di più. E che Basaglia non sia mai stato accettato dal consesso degli psichiatri italiani come un collega psichiatra. Queste tesi mi sembrano francamente un po’ ardite. La verità è che Franco Basaglia studia e si forma come neuropsichiatra all’università di Padova, dove diventa docente e lavora nella prima parte della sua carriera. Decide di abbandonare la carriera universitaria e accettare la direzione degli ospedali psichiatrici prima di Gorizia e poi di Trieste. Irrompe nella ferrea logica di funzionamento dei manicomi svelandone i meccanismi distruttivi e antiterapeutici. Rovescia il ruolo assegnato storicamente agli psichiatri nella gestione dell’istituzione manicomiale: non pone l’accento sulla malattia ma sull’ uomo malato. Con tutto il suo portato di conflitti patologici, bisogni materiali e immateriali. Per lui il processo di liberazione dall’istituzione manicomio non può essere solo burocratico o legislativo, ma un processo partecipato che coinvolga quanti più attori interessati possibile, sanitari, infermieri, pazienti e cittadini. Usa le terapie farmacologiche e psicologiche, ma lo​sforzo per la riduzione dei sintomi deve essere contestuale allo sforzo per la riemersione dei bisogni dei pazienti. In primo luogo il bisogno di libertà. La chiusura progressiva dei reparti manicomiali è contestuale all’apertura di spazi terapeutici nel territorio. Intreccia un organico dialogo con la giunta democristiana dell’APP di Trieste affinché la spesa già assorbita dal manicomio venga riconvertita contestualmente in spesa per servizi psichiatrici territoriali. E in spesa sociale per i pazienti (buoni pasto, abitazioni, sostegni economici). In sintesi viene fatto un lavoro imponente per rendere possibile il reingresso dei pazienti liberati dal manicomio nel corpo dello scambio sociale. Questo lavoro non è stato delegato a un ipotetico e improbabile Campo dell’Assistenza, ma è stato gestito da tutta l’equipe psichiatrica che ha affiancato Basaglia nel suo lavoro. Sono stati coinvolti in questo sforzo collettivo le forze politiche triestine, artisti, artigiani, imprenditori, grafici, operatori culturali, studenti volontari italiani e stranieri, insegnanti. I padiglioni dell’ex ospedale psichiatrico sono diventati spazi di riconversione cittadina per l’apertura di scuole elementari e medie, di un teatro, di facoltà universitarie. Il parco dell’ospedale è diventato un parco cittadino. L’assistenza psichiatrica di Trieste, per i suoi contenuti innovativi, è stata ammessa nel Board internazionale di psichiatria dell’OMS.​

Di Bac Bac