di Guido Ruotolo

Giuseppe Agozzino, tecnica mista

La rotta adriatica, dunque, portava in Italia non solo gli albanesi. Arrivavano migranti dall’Estremo e dal Medio oriente, come i curdi. Tanti, diretti in gran parte in Germania. Prima che seguissero altre rotte. Che sbarcassero nell’accogliente Calabria di Riace, del sindaco Mimmo Lucano.
Ho una immagine scolpita nella memoria. Ufficio Immigrazione della questura di Lecce. Un piccolo miracolo: riesco a comunicare, io napoletano, con un curdo che era da poco sbarcato in Salento e che era stato portato per l’identificazione e l’espulsione in questura.
Piccolino, carnagione olivastra. Giacca scura portata con una tonnellata di dignità. Era infelice. Riesco a capire che doveva raggiungere la Germania dove vivevano forse amici, parenti, famiglia.
Riesco a spiegargli che appena notificato il foglio di espulsione lui sarebbe diventato libero.
Gli si illuminarono gli occhi e sul suo viso si stampò un sorriso bellissimo. Doveva solo raggiungere la frontiera e passarla. Ho avuto l’impressione che sapesse perfettamente dove andare e come fare.
Per anni abbiamo assistito alle polemiche politiche sulle espulsioni e l’accoglienza. Sapendo tutti di stare mentendo. Destra e sinistra, che si sono alternati al governo, sapevano perfettamente che per rendere operative le espulsioni occorreva che le identificazioni dei migranti fossero certe.
E i cosiddetti Centri di identificazione ed espulsione erano un simbolo per mostrare l’Italia che faceva sul serio. In realtà la loro capienza non riusciva a soddisfare nessuna esigenza di controllo di migranti da rispedire a casa.
Per vent’anni abbiamo chiuso tutti e due gli occhi consentendo alla stragrande maggioranza di migranti di raggiungere le loro mete, dalla Svezia alla Germania, alla Francia. Solo una piccola quota è stata effettivamente rimpatriata dopo il riconoscimento dei rispettivi consolati di appartenenza. Paesi che dopo aver stretto accordi bilaterali con noi, in cambio di aiuti economici o di quote contingentate di lavoratori stagionali, riprendevano i rispettivi clandestini.
Questo compromesso tutto italiano – che si può riassumere in uno slogan di un ministro dell’epoca, «dobbiamo abbaiare ma non mordere» -, nasceva dalla consapevolezza che le dimensioni bibliche dei flussi migratori diretti in Italia a partire dai primi anni Duemila rischiavano di trasformare la questione migratoria in questione di sicurezza nazionale.
Prima o dopo qualcuno dovrebbe restituire onore e significato alle parole. Il popolo albanese come tutti i migranti che dai primi anni Novanta sono sbarcati in Italia, e dai primi del Duemila quelli che sono arrivati dalla Libia, non sono mai stati dei clandestini, anche se noi ci siamo affannati a gridarlo.
Certo, quando arrivavano di notte con i gommoni e venivano lasciati nelle cale o nelle spiagge del Salento, effettivamente erano degli
”invisibili”. Poi accadeva che un tassista dell’organizzazione prelevava i nuovi arrivati e li portava nelle stazioni delle ferrovie del Salento o del brindisino e molto  spesso venivano rintracciati dalle forze di polizia.
Ma il popolo disperato dei gommoni, dei pescherecci, delle carrette del mare, delle navi mercantili non hanno mai nascosto la loro sofferenza. È la legge di questa umanità dolente. Hanno sfidato la morte attraversando il deserto, sottomettendosi ai negrieri africani. E poi hanno rischiato di affogare nel Mediterraneo pur di giungere nella Terra Promessa.
E questi sarebbero clandestini?
Il flusso migratorio è come un fiume carsico che a un certo punto deve trovare, trova uno sbocco per sgorgare in superficie.
I clandestini veri erano il gruppo di indiani che viaggiavano nelle intercapedini dei tir sbarcati a Brindisi o ad Ancona, Trieste, dalle motonavi salpate dalla Grecia. O i cosiddetti “overseas”, cittadini stranieri con visto turistico o per motivi di lavoro, che alla loro scadenza si rendevano invisibili, clandestini appunto.
Cittadini che arrivavano regolarmente con l’aereo o, per esempio, con torpedoni di pellegrini in visita al Vaticano e che non rientravano subito in patria ma lavoravano come stagionali nelle campagne.
Per tutto il primo decennio del nuovo secolo, il nostro  Paese è stato sfruttato come paese di transito, per i flussi che arrivavano dall’Africa e almeno fino al 3 ottobre del 2013, con la tragedia del naufragio di Lampedusa con centinaia di vittime (dalle 300 a 500) è stato praticato in massima parte il trucco del foglio di espulsione.


Ma non possiamo dimenticare un evento della fine del secolo scorso, con la “pratica” Albania ancora aperta. Tutto accadde quel maledetto venerdì santo. Era il 28 marzo del 1997. L’Albania da un paio di mesi era allo sbando. C’era “la crisi delle piramidi”. Una truffa colossale che aveva prosciugato i risparmi dei cittadini e piegato l’economia albanese.
Dei promotori economici promettevano guadagni stratosferici a fronte di investimenti dei propri risparmi. Quando esplose la crisi fu soprattutto il sud a esplodere. Nacquero comitati di lotta armati che ben presto occuparono le città, presero il loro comando e arrivarono anche a Tirana. Il sud ricco era infestato da bande criminali con i loro traffici. Erano anni irripetibili. Valona cresceva a dismisura. Alberghi, ristoranti, cantieri navali. Era la capitale del traffico di esseri umani.
Il Nord, invece, aveva dato i natali al premier di destra, Sali Berisha, e sembrava resistere al crollo delle istituzioni.
I regolamenti di conti tra le bande criminali fecero più vittime della guerra civile. Ma ciò non evitò che riesplodesse un esodo di massa verso l’Italia. Persino le bagnarole di quella misera flotta della marina militare, delle forze di polizia preferirono ormeggiare a Brindisi in attesa degli eventi.
Aeroporti chiusi, porti senza più il controllo alla frontiera. Partimmo da Brindisi diretti a Corfù, traghetto di linea. E a Corfù eravamo un grappolo di giornalisti italiani. Ci imbarcammo su un gozzo di linea per fare la traversata fino al porto di Saranda. C’erano anche colleghi che si scambiavano le ricevute per aver noleggiato potenti motoscafi da 3000 dollari.
Saranda era una banchina di cemento armato senza posto di blocco, di frontiera. Senza dogana. Affittammo una splendida vecchia Mercedes nera con scorta e risalimmo verso Valona.
L’Albania era impazzita. Si sparava come se fossero castagnole, Tric trac, razzi a tutte le ore del giorno e della notte. Raffiche di kalasnikhov, mortai, bombe a mano.
Gli arsenali di Henver Hoxha furono saccheggiati. Kalashnikov, granate, cannoncini. Tutto era a disposizione di tutti.
Sinistri i bunker disseminati sulle spiagge, sulle coste, in campagna si favoleggia che Hoxha ne avesse fatti costruire uno ogni quattro abitanti. Qualcosa come ottocentomila.
Valona era la capitale della resistenza al governo della destra di Berisha. Città del notabilato di Enver Hoxha, trafficava e si arricchiva, anche durante le rivolte.
Io e un collega del Messaggero trovammo ospitalità nell’ufficio di una fabbrichetta alla periferia di Valona. L’imprenditore di Lecce si occupava di tessile e aveva una trentina di donne che lavoravano alle sue dipendenze. Nei suoi uffici aveva un paio di divani e tanti kalasnikhov, caricatori e bombe ananas.
Ricordo cassette di frutta alte riempite all’inverosimile di proiettili e bombe a mano parcheggiate sotto un tavolo. Sul tetto un mitragliatore calibro 12.

Una sera fummo anche sequestrati, imprigionati nell’ufficio da un gruppo di poliziotti albanesi che si presentò alla fabbrichetta con un blindato con cannoncino pretendendo un trasferimento aereo in Italia di un loro collega ferito.
Che eravamo stati sequestrati lo venimmo a sapere dalle nostre redazioni romane che ci chiamarono allarmate. Era stata l’Unità di Crisi della Farnesina a far scattare l’allarme, informata, a sua volta, dall’ambasciata italiana di Tirana di questo ricatto.
Ricordo che quella fu l’unica notte in cui non dormimmo perché da Tirana ci annunciarono che avrebbero mandato rinforzi a liberarci.
Cosa che non accadde.
Di fronte a un esodo che assumeva dimensioni bibliche, il governo dell’Ulivo di Romano Prodi diede la direttiva del respingimento in mare delle imbarcazioni gremite di migranti, di albanesi in fuga. Si chiamava “Kater I Rades” la motovedetta stracarica di più  di cento albanesi che voleva traversare il Canale d’Otranto. 
Il mare era agitato e la corvetta Sibilla del comandante Laudadio accostò il peschereccio intimandogli di tornare indietro. Durante l’abbrivio, tra le onde alte e l’ingovernabilità dei natanti, avvenne la collisione e l’inabissamento del peschereccio.
Una trentina i sopravvissuti, una ottantina i corpi senza vita recuperati, una trentina i dispersi.
Indimenticabili quelle giornate a Valona. Tutte le mattine un corteo di familiari delle vittime andava sulla banchina del porto a pregare e a gettare dei fiori in mare. Per fortuna io ero stimato dal Comitato rivoluzionario che aveva preso le redini di Valona in mano. E dunque riuscivo a confondermi tra la folla, protetto dal Comitato, e andavo anch’io al molo senza nessun tipo di problema, nonostante fosse manifesta la rabbia contro gli italiani.
Sembrava di vivere in un cartone animato. Intanto la colonna sonora di Valona erano i colpi di mitragliatore, singoli colpi, bombe ananas tutto il giorno. Le strade e piazze erano semideserte. La città svuotata. Dentro la baia, con il passare delle settimane, avevano ripreso a navigare i gommoni che caricavano migranti albanesi e non solo da far arrivare lungo le coste del Salento.
Prima di prendere il mare aperto, i gommoni dovevano superare l’isolotto di Saseno che si era trasformata in una base navale della nostra Guardia di finanza. Quante notti all’inseguimento dei gommoni. Saseno incontaminata, aveva pochi e sgarrupati manufatti in cemento armato. Era una isolotto bellissimo. A poche miglia verso sud, c’era una base militare letteralmente saccheggiata dai rivoltosi.
Tepelene, Argirocastro, Saranda. Ogni paese, cittadina del sud era in mano ai comitati dei rivoltosi. Il confine con la Grecia era controllato da loro. Avevo noleggiato una macchina con autista e scorta. Kalashnikov ben in vista e una decina di caricatori sul pavimento della Bmw nera.
A Brindisi intanto l’indignazione per il naufragio del Kater I Rades montava. Più di ottanta dispersi. Il giovane pm  della procura di Brindisi che si occupava della inchiesta, Leonardo Leone De Castris, non solo incriminò e mandò a processo il comandante della corvetta “Sibilla” ma incaricò una ditta friulana di recuperare il “corpo del reato”, facendo risalire dai fondali il peschereccio con i suoi disperati affogati.

Di Bac Bac