di Alberto Rosati

Pubblichiamo la prima parte di un testo scritto per gli studenti da Alberto Rosati, già docente presso il liceo scientifico ‘Leonardo’ di Agrigento, oggi residente in provincia di Siena. Nei prossimi giorni il seguito di questa ‘lezione a distanza’ sul fenomeno mafioso.



    

Si è diviso questo articolo in tre parti:
1) Cos’è la mafia;
2) Perché bisogna opporsi alla mafia;
3) Come ci si può opporre alla mafia.

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    Anzitutto, quindi: cos’è la mafia?
    Quando si pone questa domanda viene spontaneo pensare a intrighi, prepotenze, omicidi. Sì, la mafia è anche questo. Ma, se si approfondisce l’argomento, ci si accorge che, in realtà, si sta parlando degli effetti, visibili e appariscenti, di un modo di pensare intessuto di prevaricazione e di violenza che non è scaturito dal nulla o da una speciale condanna divina, ma, come ogni fenomeno culturale, affonda le proprie radici nella storia. In questo caso, nella storia della Sicilia e, in genere, del Meridione.
    Prima di procedere oltre, un chiarimento importante. Si è detto, in sintesi, che il modo di pensare delle comunità umane deriva dalla loro storia. Ma – ecco la questione intrigante – è vero anche l’inverso: la storia deriva dal modo di pensare. In realtà, quello che intercorre tra storia e modo di pensare è un rapporto interattivo: le due componenti – storia e modo di pensare – si influenzano a vicenda. È importante avere idee chiare in proposito perché solo così sarà possibile comprendere quali sono le radici della mafia e adottare le contromisure utili a opporsi al fenomeno mafioso.
 Ecco, quindi, la domanda: perché la mafia è nata in Sicilia e non – per dirne una – in Toscana (la regione che assumeremo a termine di paragone).
Attenzione, perché si usa qui il vocabolo “culturale” non nel senso più diffuso del sapere di Italiano, Latino, Matematica e via così, come quando si dice: “quella è una persona di cultura”, ma nel senso antropologico di “modo di pensare”. Partendo dalla storia, poiché è sempre utile esprimersi in concreto, basterà un esempio. Si prenda il termine “citto” (o “cittino”), in uso in Toscana e soprattutto nel Senese da tempo immemorabile, addirittura dalla fine del Medioevo, per designare il bambino: significa cittadino (dal latino civis = titolare di diritti). In altri termini: quando nel resto d’Europa la massima parte degli uomini erano servi della gleba, sottoposti all’arbitrio e alle violenze del signore feudale e dei suoi sgherri, in Toscana si era “cittadini”, cioè padroni di se stessi. Nessuno poteva dare ordini tranne quelli scelti dal popolo.
    Beninteso, non erano tutte rose e fiori: le faide all’interno del comune e quelle intercomunali erano quasi all’ordine del giorno, ma erano i cittadini a decidere, in modo giusto o sbagliato, del proprio destino. Poi, col passare dei secoli, anche nel resto dell’Europa occidentale il feudalesimo si estinse sotto la pressione del pensiero rinascimentale e illuministico. Tranne  nel Meridione, soggetto alla dominazione spagnola e borbonica, dove rimase saldamente radicato sino all’Unità (1860).
    Ma – ecco l’anomalia – continuò a sopravvivere, di fatto, sin quasi alla metà del secolo scorso: anzitutto, tra fine Ottocento e inizi Novecento, in conseguenza delle scelte politiche del siciliano Crispi e poi del piemontese Giolitti, entrambi presidenti del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia: i quali, per conservare in parlamento maggioranze sicure, non esitarono a scendere a patti coi signorotti siciliani e meridionali e, in cambio dei loro voti a sostegno del governo, li lasciarono liberi di agire secondo i consueti schemi ispirati alla prepotenza, all’arbitrio, alla violenza. Per inciso: Gaetano Salvemini, uno dei più acuti analisti della società dei suoi tempi, definirà Giolitti “il ministro della malavita”. Poi ci fu il ventennio fascista con Mussolini che, di là dai consueti istrionici proclami antimafia, rivestì i mafiosi con la divisa da gerarchi, rafforzando e consolidando il sistema.  Lo dice la sorte del prefetto Mori: promosso per essere rimosso (promoveatur ut amoveatur) quando, dopo aver debellato il banditismo sulle Madonie, osò minacciare i veri centri di potere della mafia, rappresentati nell’isola dai vertici stessi fascismo.
    Nel secondo dopoguerra, e sin quasi alla fine del secolo scorso, innumerevoli sono stati i fatti di sangue verificatisi nel paese. In questo periodo spiccano gli assassinî cosiddetti “eccellenti”, cioè di servitori dello stato in prima linea nel combattere la mafia. Fra i tanti, quelli dei giudici Livatino, Falcone, Borsellino e del generale dei carabinieri Dalla Chiesa: i quali, privi del sostegno morale e materiale di quelle autorità che invece – a Palermo e a Roma – avrebbero dovuto appoggiarli, furono uccisi in modo orrendo insieme a molti dei militi di scorta. Le reazioni dell’opinione pubblica di fronte a tali scempi imposero allo stato una risposta forte, culminata nella cattura, nel processo e nella condanna del “capo dei capi” Totò Riina. Ma, ben lungi dall’essere sconfitta, negli ultimi decenni la mafia ha modificato la propria strategia: agendo sottotraccia, si infiltra di soppiatto nei gangli del sistema politico e amministrativo in modo da non suscitare eccessivo allarme sociale e, pur senza abbandonare del tutto la violenza esplicita, persegue i propri obiettivi di ricchezza e di potere tramite la corruzione.
    A conferma che il modo di pensare mafioso, e perciò la mafia, sono, in linea di massima, un effetto del feudalesimo stanno – oltre all’Italia – gli esempi del Giappone (la yacuza), della Russia e della Cina: tre paesi in cui le mafie sono tuttora saldamente radicate. In Giappone il feudalesimo si è estinto molto tardi: solo verso la fine dell’Ottocento; in Cina e in Russia, sotto mentite spoglie (quelle dei rispettivi partiti comunisti: in realtà “la nuova casta”), si può addirittura dire, con buona approssimazione, che sopravvive ancora adattandosi – ovviamente – alle trasformazioni innescate dalla rivoluzione industriale.
    Ma c’è di più: Gramsci, uno dei più grandi e generosi pensatori che l’Italia abbia avuto (imprigionato a lungo dal fascismo e liberato in fin di vita morirà pochi giorni dopo), pur senza occuparsi in modo specifico di mafia elaborò un principio importante per far luce sul problema trattato in queste pagine: la cultura, cioè il modo di pensare – e perciò di agire – delle classi subalterne tende a modellarsi su quello delle classi dominanti. Ci si rifletta un po’: è naturale che la povera gente (erano i più) ispirasse i tentativi di sopravvivere ai modelli di comportamento delle classi privilegiate, e quindi riconoscesse nella dissimulazione, nell’inganno, nella prepotenza, i soli strumenti per farsi strada e raggiungere condizioni di vita accettabili. Conseguenze di questa mentalità? Il clima di diffidenza, di sospetto, di paura, di omertà (nenti vitti, nenti sacciu, nenti dicu) – e di violenza – diffuso nelle comunità di mafia.

Di Bac Bac