di Tano Siracusa

disegno di Giuseppe Agozzino
 

Li avevo visti di sfuggita dentro la macchina, prima i bambini, poi lei con la testa coperta da un grande velo e un altro velo, che poteva anche essere una mascherina antivirus, a coprirle il viso. Avevo colto solo il lampeggiare di uno sguardo impaurito, da animale braccato.
Solo quando ci hanno presentati, ho incrociato i loro sguardi: in fuga quello di lei, frastornato quello del marito.
La loro storia speriamo di farla raccontare a loro  nei prossimi giorni, alle amiche volontarie che hanno raccolto per strada questa famigliola tunisina, sbarcata assieme ad altre decine di migranti dalla nave Rapsody dopo la quarantena, solo con una certificazione di negatività al covid e senza neppure in mano il foglio di via.
Tre sere dopo è stata Chiara, una giovane agrigentina di genitori marocchini che parla molto bene sia l’italiano che l’arabo,  ad incontrarli alla stazione. Ha notato uno dei due bambini che correva a piedi nudi nella piazza deserta della stazione e i genitori smarriti, impauriti, che non parlavano né italiano né francese.
La prima cosa che la giovane madre ha chiesto, subito dopo aver mostrato la certificazione negativa al covid, è stato del cibo per i figli. Chiara ha subito chiamato Alessia, un’amica nella rete di solidarietà che si attiva in questi casi, che ha portato da mangiare, vestiti, coperte. Un’altra loro amica, Iman, li ha ospitati per quella notte. Le due precedenti le avevano passate nei giardini di Porta di Ponte.  Finalmente in una casa, per una notte al sicuro,  hanno brevemente raccontato la loro storia.                                      

Provenienti da una zona rurale della Tunisia, avevano accettato l’offerta del viaggio sul barcone al posto della retribuzione per il lavoro svolto in campagna. Avevano accettato, perchè comunque il padrone non li avrebbe pagati e perché venire in Italia era il loro sogno. Hanno riempito con le loro povere cose quattro borse e sono saliti assieme ad altri quindici sul barcone. Il resto della storia è stato raccontato in diretta dai media. Il motore che si è rotto vicino Lampedusa, i soccorsi con l’elicottero, quattro giorni al centro di Lampedusa, e poi la quarantena sulla Rapsody.
Quando sono scesi dalla nave gli altri sapevano dove andare. Qualcuno ha preso un treno per la Francia, aiutato da qualche altro. Molti avevano indirizzi, località, amici, parenti da raggiungere.
Loro, marito e moglie di 23 anni e due bambini, quello piccolo in braccio, avevano raggiunto a piedi la città.
Adesso, quattro giorni dopo, abitano un appartamento messo a disposizione da un privato. Un avvocato volontario dell’associazione Solima ha chiesto la sospensione della procedura di rimpatrio. Chiara, Alessia e Fabiola sono riuscite assieme al legale  a procurare una prima forma di assistenza sanitaria e a regolarizzare la loro posizione in Questura.
Comincia adesso un’attesa che potrebbe protrarsi e la paura non è finita, temono soprattutto di venire separati.  Ma lo smarrimento dei primi giorni e delle prime notti ad Agrigento è alle spalle.                                                

Abitano una casa normale, i vicini di casa li hanno accolti con molto calore, con generosità.
Ne parlo con Alessia e Chiara nell’appartamento che li ospita. I bambini giocano, la giovane madre porta il caffè e i dolci, il padre mostra la gamba con delle grosse vene varicose per le quali ha già iniziato una cura. Lei ha tolto il velo, ogni tanto sorride, è distesa, sembra restituita ai suoi venti anni. Da quando è arrivata scrive su un quaderno le parole italiane che ascolta e accanto, in arabo, il loro significato. Il marito dice che ha lavorato in campagna, gli piacerebbe poterlo fare qui.
Con Chiara parlano in arabo, a lei probabilmente racconteranno nei prossimi giorni i particolari della loro storia, i progetti, le loro speranze. Ci sarà tempo per farlo. E Bac Bac, se lo vorranno, offrirà loro queste pagine.  

Di Bac Bac