di Livio Cavaleri

foto di Tano Siracusa

Guardare una città richiede esercizio. Basta uno sguardo distratto, un’occhiata viziata dall’abitudine per cadere nell’illusione. Per esempio, osservando da una certa distanza, diciamo dal ponte Morandi, il centro di Agrigento, con il suo profilo irregolare e spezzato dai palazzoni, sembra di scorgere una delle prossime capitali della cultura italiana: è impossibile, l’immagine è troppo sconcia.

È necessario uno sguardo ravvicinato. Passeggiando all’interno del centro urbano, ai piedi dei palazzoni, basta alzare lo sguardo, sfidare l’altezza tirannica dei tolli, per metterne a nudo la goffa bruttezza. Ma, anche in questo caso, qualcosa non è come appare. L’osservatore, al pari del protagonista di Matrix, ha un presentimento: c’è qualcosa di strano nelle facciate degli edifici, un’interferenza. Come scoprirà di lì a poco, il cemento, simbolo di solidità e progresso (almeno fino al suo decadimento), costituisce l’essenza dell’irrealtà.

Due settimane fa, l’incidente. Nel corso della passeggiata urbana “Il sacco di Agrigento”, iniziativa lodevole di Roberto Bruccoleri, Marco Falzone (Archeo Trekking Tours) e Gaetano Gucciardo (Università di Palermo), è accaduto il fatto: alcuni dei palazzoni hanno iniziato a disintegrarsi, in anticipo rispetto alle promesse del boom edilizio della metà del secolo scorso. Non si sono registrati feriti, non sono caduti massi né è stato necessario avvertire la Protezione civile. Eppure qualcosa ha ceduto.

Sembrava la fine di un incantesimo. Mentre Gaetano Gucciardo ricostruiva genesi, contesto storico-sociale e sviluppo della speculazione edilizia degli anni Cinquanta e Sessanta, i tolli franavano. Cioè hanno cominciato a mostrarsi per ciò che sono, costruzioni impossibili. Secondo i testimoni, sembrava di assistere a una scena di Inception di Christopher Nolan, quando Ariadne (Elliot Page) comprende di essere in un sogno e la realtà tutta intorno cede, anzi scoppia. L’irrealtà, esplodendo, mostra la realtà. Così nel mezzo del tour. I palazzoni sono crollati, come nel finale di Fight Club, all’ululato di Where is my Mind dei Pixies. È l’anticittà che, disfacendosi, mette nudo la città. I tolli, da via Empedocle alla fine di via Garibaldi, sono l’anticittà, cioè la negazione della città e delle sue possibilità di sviluppo.

«Agrigento è esplosa» ha detto il giornalista Stefano Boeri durante la sua visita al centro storico, pochi anni fa. Anche l’anticittà infatti nacque da un’esplosione. Negli anni Cinquanta, la speculazione coinvolse tutti gli strati sociali e realizzò un desiderio di progresso condiviso dall’intera popolazione. Una visione di Agrigento opposta a quella contemporanea, turistica, retorica. Pur nell’illegalità sistemica, non si trattò di omertà o ignoranza, della classe politica o dell’opinione pubblica: Agrigento scelse non il paesaggio ma il cemento, il trionfo del verticalismo e, per citare La legge e l’arbitrio di Gaetano Gucciardo (Rubbettino, 1999), «il sogno piccolo borghese e provinciale della Manhattan nel cortile di casa». Così un palazzo, destinato da regolamento a un’altezza massima di 25 metri, ottenuta la deroga fino ai 48,5, ne raggiunse i 53,1. Stessa sorte per molti altri palazzi. Dal 1951 al 1966, scrive il sociologo citando l’indagine della commissione Martuscelli, furono costruiti, in soli quattordici anni, vani pari al 118% del patrimonio immobiliare già esistente. Gli agrigentini, che appena mezzo secolo prima soffrivano ancora di febbre dello zolfo, vennero colpiti dalla febbre del cemento, come la definisce Italo Calvino nella Speculazione edilizia. Poi la frana, nel luglio 1966, quindi le commissioni d’indagine (le carte comunali che sparivano, per poi riapparire, nemmeno tutte, in presenza della Magistratura) e infine il decreto Gui-Mancini. La speculazione, giunta al suo epilogo, ha scritto Gucciardo nella sua eccellente ricerca, è solo il prologo all’abusivismo degli anni Settanta e Ottanta.

Giorni nostri. Terminato il tour, i palazzoni sono riapparsi. È l’anticittà nascosta sotto la città nascosta sotto l’anticittà. Un sogno nel sogno? Una cosa è certa: tornando in quei luoghi, da piazza Marconi a San Francesco di Paola, è facile ricadere nel vizio e nell’inganno. È più facile vedere l’anticittà che non la città. Il cemento, prima di apparire dinnanzi ai nostri occhi, è nella nostra coscienza. È la nostra eredità, perché, come allora privi di visioni alternative, siamo ancora servi della stessa idea delirante di progresso. In questo sta l’esercizio, l’educazione impartita durante la passeggiata; la capacità di guardare, a un tempo, davanti a sé e nella memoria. La città, quella reale, è ancora là dietro.

Di Bac Bac