di Livio Cavaleri

Giseppe Agozzino, tecnica mista

Gentili presidente Alessandro Patti, direttore Salvatore Prestia e direttore artistico Francesco Bellomo, gentile staff del Teatro Pirandello di Agrigento,

il teatro è di tutti e non è per tutti. Un secondo appunto, in premessa: la città natale di uno dei più grandi drammaturghi dell’età contemporanea non ha una cultura teatrale. Nessuna delle due affermazioni è un paradosso. Ecco perché.

Domenica pomeriggio, al Teatro Pirandello, è andato in scena Zorro , monologo scritto da Margaret Mazzantini con Sergio Castellitto. Ecco cosa è accaduto durante lo spettacolo: diversi spettatori guardavano ripetutamente lo smartphone, accendendo e spegnendo i display; qualcun altro riceveva notifiche su notifiche, con avviso sonoro, senza mai togliere il volume; qualcuno scattava fotografie con il flash ( con il flash, a teatro, a spettacolo in corso) e qualcun altro faceva video; qualcuno si schiariva la voce – accade, per carità – ripetutamente e in discreta libertà; qualcuno parlottava con il vicino; qualcuno ha risposto al telefono (in sala, sì, a spettacolo in corso).

Non è la prima volta che si verificano simili comportamenti, anzi, sembra un’abitudine di alcuni spettatori del teatro. Questi signori e signore fanno come a casa propria, infastidiscono gli altri spettatori, sebbene il teatro non sia loro. Stare a teatro, in quale modo e con quale rispetto lo s’impara in quinta elementare, quando il maestro o la maestra porta gli allievi in sala e spiega loro che non si parla, che i telefoni si spengono – perché, invero, il telefono può essere spento. Qualche maestra o maestro più appassionato potrebbe addirittura spiegare che prima dello spettacolo viene stipulato un patto tacito: lo spettatore sa che sta per assistere a una finzione, che i personaggi davanti a sé non appartengono alla realtà, anzi dalla realtà fuggono; gli attori, a loro volta, ingannano lo spettatore, il quale è consapevole di questo inganno. Entrambe le parti sanno che su questo accordo si basa il​ gioco teatrale. C’è un’altra clausola, ovvia quanto quelle appena elencate: la messinscena non va disturbata in alcun modo. Altrimenti si perde la magia. Basta un attimo e tutto finisce: l’attesa, le luci che si abbassano, l’entrata in scena del primo personaggio, persino il costo del biglietto… tutto è sprecato. Le orrende abitudini di cui sopra, con ogni probabilità, non dipendono dall’ignoranza; sembrano semmai un fatto di costume, quel costume locale secondo il quale troppi agrigentini non distinguono tra spazio privato e spazio pubblico, tra ciò che è di proprietà personale e ciò che invece va condiviso. Non è ignoranza, quindi, ma perseveranza.

In quinta elementare, ancora, si apprende che il teatro non è un rifugio borghese, non è un salotto intellettuale né un ritrovo di artisti. Il teatro è di tutti. Al tempo stesso, il teatro non è lo stadio né un’osteria, non è il mercato né la cucina di qualcuno. Quindi il teatro non è per tutti. È un principio democratico e di convivenza. Se qualcuno si annoia, ha urgenza di tenere chat e social aggiornati oppure ha i selfie da fare, non entri in sala. Il teatro è democratico al punto che tali norme valgono per tutti, persino per i parenti di personalità locali importanti.

Un esempio opposto: c’è chi capisce poco o nulla di calcio, non esulta in tribuna e non ha idea di chi sia l’allenatore dell’Akragas: questa persona, con ogni probabilità, non va allo stadio. Allo stadio, così come a teatro, bisogna saper stare. Vale lo stesso discorso per un negozio di vestiti o di alimentari: a nessuno verrebbe in mente di fare scoregge rumorose nel primo o di entrare nudo nel secondo – né varrebbe il caso opposto. Sono esempi triviali, ma è il problema stesso a essere triviale – e grottesco, farsesco, quasi extraterrestre. Altrimenti, si pensi alla chiesa: perché in chiesa si ha pudore (e, prima del pudore, vergogna) – al punto di praticare il silenzio, togliere la suoneria al telefono – e a teatro no? Il teatro non è a suo modo un tempio, non ha le proprie liturgie e i propri costumi? Non ha la propria sacralità? Si tratta allora di capire dove ci si trova, come ci si comporta; si tratta, né più né meno, di saper stare al mondo.

Cosa può fare l’organizzazione del Teatro Pirandello? Può difendere il nostro teatro. Lo staff, durante lo spettacolo, può individuare i soggetti sotto accusa; invitarli con discrezione ad alzarsi dal proprio posto e raggiungere l’ingresso; lì i soggetti possono ricevere il rimborso del biglietto, perché lo spettacolo è con ogni evidenza non di loro gradimento oppure motivo di noia o spaesamento; a quel punto, l’ex spettatore (se spettatore è mai stato) può essere invitato ad andar via dal teatro. La direzione potrebbe, ancora, in presenza di recidivi, pensare a una Daspo – quest’ultima proposta, a differenza delle altre, è una provocazione.

Un membro dello staff potrebbe rispondere – ed è in effetti accaduto – che, così facendo, intervenendo in sala durante lo spettacolo, si finirebbe per fare agli attori un danno ancora maggiore. In questo caso è necessario trovare un altro modo per allontanare i soggetti (posto che intervenire in tal misura sui palchetti sarebbe più facile). Sono soluzioni estreme, certo, ma inquinare uno spettacolo a teatro non è di per sé un gesto estremo?

Una seconda proposta, dubbia. Lo staff del teatro potrebbe, a inizio spettacolo, spiegare al pubblico che tutte quelle brutte cose sopra elencante non si fanno; spiegare, pure, che chi le fa è un cafone. Non sarebbe un insulto ma una constatazione. Funzionerebbe? E non sarebbe davvero umiliante tanto per lo staff quanto per il pubblico? Sono buone abitudini, come già scritto, che s’imparano in quinta elementare. A queste, inoltre, andrebbe aggiunto il corretto ricorso all’applauso: eccezion fatta per il cabaret, il karaoke o altri particolari tipi di spettacolo, le mani vanno battute alla fine di ciascun atto e non nei momenti di orgasmo.

In conclusione, andare a teatro non è obbligatorio, non si scarica dalle tasse e – con buona pace dei poeti elisabettiani – non apre le porte del paradiso; chi non sa stare a teatro, o chi rischia di annoiarsi e distrarsi, non vada. Per favore, a partire dalla prossima stagione teatrale, la Fondazione Pirandello s’impegni – attraverso l’attività stampa o con una comunicazione prespettacolo – affinché questi semplici concetti siano chiari. Ne va della dignità culturale e istituzionale della città, una qualità spesso in discussione. E ​ne va delle produzioni teatrali ospitate dal Pirandello: in tutta onestà, quale regista o attore tornerebbe di fronte a un pubblico così? E, se pure tornasse, cosa racconterebbe di Agrigento? Spargerebbe la voce, magari, che Agrigento non è la più bella città tra i mortali.

Di Bac Bac