foto di Tano Siracusa

La giornata si annuncia bellissima. Il mare si vede già, è piatto da far pensare che oggi dall’altra sponda a qui il viaggio si potrebbe fare a piedi, senza rischiare il naufragio. Scendendo verso la spiaggia l’imbarazzo è tra seguire il profumo del gelsomino o quello più penetrante della grande pomelia coi fiori gialli. Quelli maturi sono caduti sull’asfalto del vialetto. Da oltre il muretto del giardino dal quale sporge la pomelia, la voce di chi fa colazione. Una di loro, voce femmnile, racconta.

“Capisci, è stato come entrare nella vita di un’altra!”.                                                                                                                                                   

Le piccole storie, piccole e carpite così. a volte hanno in seno una drammaticità inaspettata. L’inizio di un racconto, la traccia di una sceneggiatura per Polanski. O semplicemente uno dei tanti capitoli quotidiani del racconto di cosa siamo diventati.

“Dapprima è stato scioccante, quasi macabro…Entravo in una casa rimasta tale e quale quella che era quando abitata da chi era stata estirpata da quelle stanze. Tutto al suo posto. Come se un evento improvviso avesse spinto chi l’abitava a fuggire. Non era tutto in vetrina, era mosso e disposto dalla vita di ogni giorno, senza disordine, con l’ordine quotidiano delle cose…”.

Il racconto va avanti. Io non sono visto. il rampicante fitto ci divide, nasconde me a loro, di loro mi fa arrivare la voce. Anzi, a parlare è solo lei, quella che è entrata nella vita di un’altra. Tra i significati di alienare c’è “trasferire ad altri”. Quello che è accaduto per e in quella casa.

“Capisci, avevano trasferito o chiuso in un ospizio la madre e avevano alienato la casa, così come la madre l’aveva lasciata. Loro non era tornati una sola volta in quella casa. Si erano chiusi la porta alle spalle, e via. Pensa, pure il frigo era pieno delle cose che la madre aveva comprato, o qualcuno aveva comprato per lei. Poche cose scadute, il più acquistato di recente. Aperto il frigo, tutto lì… Impressionante…”..

“Dapprima, lo ammetto, mi ha fatto impressione, molta…Poi, non so, mi è apparso tutto improvvisamente rasserenante. Non ero sola in una città nuova. Mi sentivo in compagnia, un pò mi confrontavo con qualcun altro, imparavo a conoscerla,senza parlare, provavo a raccontarmi….”.

Le foto sullo sparecchiatavola, quelle a colori. Colori in gran parte persi nel tempo. Foto in bianco e nero, quelle più intime erano  di là, nella stanza da letto, sul cassettone. Immagini felici, perchè sempre cerchiamo di fissare nel tempo, per poi rivedere, solo gli attimi felici della nostra vita. Raramente non è così, magari si, a volte qualche immagine malinconica, ma la malinconia può starci.

“Apro l’armadio, e vedo tutti i vestiti di lei in buon ordine…Gli abiti, le gonne, le camicette, i cappotti…Più in là, un mobile per le scarpe. Un paio di borsette. In alto, dentro l’armadio anche un cappellino….”.

Un cappellino, testimone di ore felici o spensierate, di specchi. Chi è attorno al tavolo della colazione, ascolta. Ascolto anche io. Non conosco loro, non ho conosciuto lei, tutto rimane anonimo, sospeso in una drammaticità che mi cattura e mi gela.

Sul tavolo da pranzo, e sulla scrivania, tutto come al momento della “deportazione” prima dell’alienazione: appunti quotidiani, numeri telefonici a matita sul primo pezzetto di carta disponibile, bollette pagate e quelle da pagare.

All’improvviso, dentro la vita di un’altra persone. Un pò come può accadere ad un ladro che ha tanto tempo davanti, entra in casa e magari siede su una poltrona a guardarsi attorno. Un pò come il killer che entra ed anche lui ha un’attesa che sa già lunghissima prima che arrivi la vita dell’altro.