di Tano Siracusa

Si viaggiava per fotografare, ma si fotografava anche per viaggiare. Tanto il meglio di quello che avremmo visto sarebbe rimasto fuori dalle pellicole.
A Iquitos, nell’Amazzonia peruviana, si può arrivare solo con un volo o attraverso il fiume dopo quattro, cinque giorni di navigazione. Avevamo deciso di arrivarci imbarcandoci a Tarapoto. Ma da Lima a Tarapoto era stato un viaggio di diversi giorni sugli autobus che risalivano le Ande.

Piccole città, piccoli paesi: Cajamarca, la sua lustra piazza centrale e l’alzabandiera con la banda la domenica mattina, Celendine dove c’era una festa e la notte fiammeggiava di girandole scintillanti, gli uomini ubriachi che saltavano fra i giochi pirotecnici e le donne silenziose con i cappelli a cilindro e le facce piatte.

Poi l’autobus si arrampicava oltre i 3000 metri fra i tornanti e i precipizi delle Ande. Ogni tanto l’autista fermava per riparare una gomma o qualcosa che nel motore non andava. Si scendeva tutti. Ora quel paesaggio preistorico non oscillava, non sobbalzava più, la sua sfida immobile, indecifrabile sembrava dipinta nell’aria tersa, rarefatta.
Di notte eravamo scesi giù a precipizio, sobbalzando fino a Tarapoto. Una sera, in pariferia, in un circo semivuoto avevamo visto l’uomo più alto del mondo. Una mattina avevamo assistito a un linciaggio, un uomo insanguinato seguito da decine di taxi e dalle auto della polizia. Si era poi saputo che aveva rubato un computer e che in piazza non lo avevano ucciso. La sera, a Lamas, un anziano commentava con vergogna l’episodio.


La sicurezza in Perù quindici anni fa costituiva un problema grave, non solo a Lima e nelle grandi città. La pratica dei linciaggi era diffusa e tollerata anche negli ambienti di sinistra, dove si parlava spesso delle stragi di Sendero Luminoso, di quegli anni feroci. Era come se di quella grande fiammata di violenza, quella dei militari e quella di Sendero, sopravvivesse una scia, ardessero ancora le braci sparse un po’ ovunque, di sicuro alimentate dalle distanze sociali, dalla povertà estrema e diffusa nelle comunità indigene o nelle periferie urbane.

Anche nella zona della foresta dove ci eravamo inoltrati la sicurezza era a rischio. L’ultimo tratto verso l’imbarco del battello era stata una specie di fuga nel chiarore dell’alba, su una pista dove spesso si verificavano degli agguati. Banditi, dicevano quelli dei taxi. Qualche altro viaggiatore confermava e lo dicevano anche quelli dell’hotel: molti preferivano partire in piena notte. L’autista aveva rallentato solo in prossimità del primo villaggio, una decina di baracche immerse nell’umidità dove avevamo bevuto del caffè caldo.
Nel villaggio dove ci si imbarcava avevamo comprato le scodelle, le posate, la cerata per la pioggia e le amache.


Per quattro notti avevamo dormito su quel battello dove viaggiava anche un gruppo di giovani cattolici che cantavano e pregavano. Gentili, discreti. Una di loro che dormiva nell’amaca accanto alla mia a Iquitos mi avrebbe salutato dicendo : ‘Che Dio ti benedica.’
Al tramonto la luce vibrava sull’acqua del fiume dove oscillavano le masse ormai scure della vegetazione. Era una luce argentea, diffusa, come emanata dal basso, dall’acqua che assorbiva e dissolveva l’immobilità del cielo in un’unica sfera, dove i grigi scivolavano scintillando come lastre ondeggianti di metallo fuso. Allora tutti facevamo silenzio, ci alzavamo dalle amache, ci affacciavamo alla balaustra per riempirci gli occhi, per vedere meglio, per vedere di più.

Ogni tanto la lancia accostava vicino a un villaggio, poche decine di palafitte lungo il fiume dove le donne lavavano i panni e i bambini giocavano. Nei villaggi più grandi c’era anche una scuola. Davanti a quelle piccole comunità c’era il fiume, dietro c’era l’onda verde della foresta pulsante di vita animale e vegetale. L’alimentazione sembrava assicurata. Imbarcavano legna e qualche abitante del villaggio saliva a bordo, andava in città.

A Iquitos la verità non si leggeva sui giornali ma sulle mura delle case. Decine di grandi scritte denunciavano il mercato sessuale minorile. Turisti, soprattutto statunitensi, che compravano ragazzini e ragazzine. Se ne vedevano in giro. Nella denuncia c’era spesso una intonazione religiosa, cattolica.
Quasi 400 mila abitanti allora, mezzo milione oggi, hotel, luci, locali, ma anche un centro storico dalla sonnolenta vita di provincia, un basso costo della vita, l’attrazione dei villaggi a pochi chiilometri lungo il fiume e poi Belen, il grande mercato di Belen. Erano queste le attrattive ufficiali della città. La realtà era diversa, o almeno non era solo questa.


A Belen, per esempio, vivevano allora 10 mila persone provenienti dai villaggi lungo il fiume, vi si erano trasferite e avevano costruito le loro palafitte a ridosso del più grande mercato della città, dove si vendono i tesori della foresta e del fiume: strani pesci ancora vivi, uccelli, galline, insetti commestibili, pennuti variopinti, piccoli coccodrilli e cianfrusaglie, tutta una profusione di sostanze vegetali, di erbe, liquori, sostanze psicotrope che gli sciamani usano per i loro ‘viaggi’ con una saggezza che i turisti non hanno. Sul mercato, sui suoi odori selvaggi, volteggiano degli enormi uccelli che non sono ma sembrano avvoltoi.
Un ragazzo aveva voluto accompagnarci e ci spiegava che lì nessuno pagava le tasse, perciò non c’erano fogne, l’elettricità era precaria come la sicurezza.


L’impressione era quella di una zona di contaminazione, dove la città attraeva e avvelenava con i suoi miasmi il fragile equilibrio dei villaggi.


Ne avevamo raggiunto uno su una piccola imbarcazione che si noleggiava al porto. Dopo mezz’ora di navigazione si arrivava, si saliva un breve viottolo e si giungeva subito ad una radura dove a cerchio una decina di baracche esponevano artigianato del villaggio. Tanti sorrisi e ragazze a seno scoperto. Il villaggio vero era a una mezz’ora di camminata, centinaia di costruzioni in legno sparse nella vegetazione polverosa. Nel silenzio della sua abitazione, seduti sulla larga piattaforma della palafitta, chi ci ospitava sosteneva di essere il vicesindaco del villaggio. I problemi, diceva, erano tanti. La malaria, anzitutto, mancavano i farmaci. La scuola, il maestro che da Iquitos spesso non veniva. Il ponte, che era crollato e non ne finanziavano il ripristino. Il cane sdraiato accanto a lui sonnecchiava. I cani non hanno modo di rendersi utili da queste parti, ma trovano facilmente ospitalità nelle palafitte. C’è da mangiare un po’ anche per loro.
Il villaggio sembrava quasi disabitato. Tornando avevamo visto il ponte crollato, in legno, che avrebbe potuto essere riparato in mezza giornata di lavoro.
La messinscena dell’avamposto per turisti era solo il primo, maldestro passo, verso l’illusione della città e l’inferno di Belen.

Nel video il reportage fotografico.

Di Bac Bac