Tu arrivi in una città manomessa dal sacco edilizio del dopoguerra, frequenti il liceo scientifico negli anni del riflusso, quando anche ad Agrigento si disperdevano gli ultimi reduci del ’68, oltre lo stretto si festeggiava la “Milano da bere” e Berlusconi si affacciava da imprenditore televisivo sulla scena nazionale. Alla fine di quel decennio tu eri uno dei più giovani iscritti al circolo Rabat di Legambiente. Come ricordi la città in quegli anni e come è avvenuta tua formazione di ambientalista?

La città che ricordo era quella della immondizia buttata per strada, non c’erano neanche i contenitori, si svuotavano i secchi in cumuli lungo le vie. Ci pensi? Era la città in cui la domanda ricorrente era: “Vinni l’acqua?”, e se tornando da scuola sentivo scrosciare l’acqua sapevo che avrei trovato mia madre di buon umore e anche il mio si risollevava. E ogni estate ritrovavo San Leone cambiata perché laddove avevo lasciato campagna ci trovavo una villa o, peggio, una palazzina. E tutto era abusivo. Mia nonna stava in un appartamento di San Leone risalente agli anni Sessanta, nel giro di cinque anni fu circondato di altri edifici. Le strade erano prive di asfalto, l’acqua veniva ogni dieci giorni e non c’erano le fognature; la mattina all’alba il “borgo” si riempiva del tanfo degli scarichi riversati sui modesti giardini delle villette. E noi bimbetti andavamo cercando posti dove giocare a pallone, alla fine giocavamo lungo le vie di transito e l’alt al gioco era imposto dal passaggio delle auto. È  in questo contesto che a vent’anni mi avvicino all’ambientalismo. Ci arrivo, da studentello, attraverso i libri (Pacino, Tiezzi, Conti, Rifkin, Commoner) ma ci arrivo anche per esperienza diretta: osservavo giorno dopo giorno una trasformazione dello spazio fisico selvaggia, senza regole e abusiva che non solo esprimeva un individualismo predatorio ma anche destinato a compromettere lo sviluppo futuro e – oggi lo possiamo dire – persino il valore dell’investimento privato.

Già alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90 la sede di Legambiente in via Zuppardo diviene il principale laboratorio politico della città. Non è solo la sede del circolo Rabat, ma anche della Rete, di Vernice fresca, della rivista Suddovest. I giovani eravate tu, Mimmo Fontana, Nino Cuffaro, i vecchi eravamo noi che avevamo fatto il ’68 e in mezzo, anche anagraficamente, Peppe Arnone. Per la prima volta il punto di vista esterno, “nazionale”, sulla città, veniva assunto e specificato dall’interno: la denuncia degli abusi in zona A, la pubblicazione della Martuscelli, la scoperta di una città moderna che aveva abbandonato il centro storico cinturandolo con decine di palazzoni. E poi, oltre Suddovest,  un’altra pubblicazione intitolata programmaticamente “L’altra città”, e Paolo Lattaioli, urbanista di Peugia, che viene ad Agrigento invitato da Legambiente e abbozza un progetto di scale mobili, Sergio Quinzio che negli stessi giorni, nel pieno dell’ infuocata campagna elettorale, discute con un centinaio di studenti del suo ultimo libro, “La sconfitta di Dio”. E infine quella notte quando si è festeggiato Arnone sindaco per scoprire il giorno dopo che era stato sconfitto. Cosa è rimasto del fervore di quegli anni? Cosa ha perso o cosa ha guadagnato la città con quella sconfitta?

Quella sconfitta ha tagliato fuori la città da un cambiamento che era nelle cose, lo ha ritardato e ha avvelenato drammaticamente il clima politico. Agrigento non poteva più essere la città dell’edilizia selvaggia e invece elegge un sindaco come Sodano, la città non poteva più essere governata coi criteri clientelari e affaristici degli anni della spesa pubblica senza fondo e avrebbe dovuto puntare con decisione verso un modello di sviluppo centrato sul patrimonio monumentale e paesaggistico. A questo arriverà con un ritardo di oltre venti anni e sempre in mezzo a forti contraddizioni.

Quali contraddizioni? Durante questi venti anni c’è stata per te, fra le altre, l’esperienza di Fuorivista, che in parte continuava, in parte prolungava e articolava l’esperienza ambientalista degli anni ’90. Si delineava l’idea di una città che andasse oltre l’orizzonte di una modernità di scarto, che aveva cominciato a produrre la nuova migrazione intellettuale giovanile. La contraddizione fra il volere e il potere, la contraddizione fra un futuro solo desiderabile e un passato immodificabile? Si è anche parlato di decostruzione in questi anni, superando un tabù. Intanto il centro storico si autodecostruisce, come Parco Icori e tutto ciò che viene abbandonato.

Quegli anni furono, se mi si passa l’espressione, “eroici”. Eravamo tanti, eravamo entusiasti, c’era una leadership molteplice e c’era soprattutto un leader politico, Peppe Arnone, che fu capace di portare a sintesi e unire queste energie. Fermammo la spinta a sanare le case abusive in Zona A, il clima che creammo, facendo leva sul consenso nazionale sulle nostre posizioni, portò alla istituzione, anni dopo, del parco della Valle dei Templi, si ingaggiò una battaglia tenace contro un modello di sviluppo che impiegava la spesa pubblica per realizzare opere che definivamo “inutili e dannose”. Era questa la nostra analisi ambientalista: l’ambiente in Sicilia era devastato da un uso distorto e affaristico della spesa pubblica che legittimava, peraltro, l’illegalità diffusa e soprattutto l’abusivismo edilizio.

Il tema della decostruzione è lo sviluppo di quella analisi. Ma attenzione, perché se la tematica della decostruzione viene posta nei termini del taglio dei piani alti si finisce col proporla nei termini dell’interesse pubblico contro gli interessi privati (per altro nient’affatto abusivi e ormai storicamente consolidati). E così non si va da nessuna parte. La decostruzione non può essere una espiazione collettiva per le colpe degli agrigentini degli anni Sessanta.

Oggi non è solo la città ad avere bisogno di una bella dose di decostruzione ma il territorio stesso dovrebbe essere smontato e rimontato. Non solo perché le brutture dei palazzoni sono una ferita estetica ma perché il disordine urbanistico compromette la qualità della vita di chi vi abita, genera carenze nei servizi, costi spropositati per assicurarli, ingorghi ingiustificati per una città della taglia di Agrigento. Compromette usi a servizio del pubblico che, per una città che deve puntare al turismo e all’offerta culturale, sono indispensabili.

Dicevo che questa problematica dovrebbe però essere posta, come tutta la questione ambientale, tentando costantemente di tenere allineati gli interessi individuali con quelli collettivi. E la chiave storica dello sviluppo messa in luce da Douglass North. L’ambientalismo fa presa se è principio regolatore dello sviluppo e non se viene evocato contro lo sviluppo.

E sviluppo vuol dire, ricerca, innovazione, sperimentazione. Lo spiego con un esempio: qualche tempo fa l’Anas ha sperimentato sulla Passeggiata archeologica l’asfalto giallo. È  durato meno di dieci giorni; le gomme delle auto in transito l’hanno fatto diventare nero e oggi nessuno più si ricorda che, sotto, è giallo. Sui social si sono scatenate le ironie e i detrattori sembra abbiano avuto ragione. Invece hanno avuto torto. Perché la chiave è tentare, non avere paura di sbagliare. se in un posto la gente, le istituzioni, i gruppi tentato di fare le cose, di inventarsi cose, vuol dire che quello è un posto vivo e se ne sbagli cento ma una riesce, quella fa sviluppo. Ecco certe volte Agrigento sembra disporre di una vivacità insospettabile. Pensa ai tanti gruppi che hanno fatto esperienze di cura di quartiere, di edifici, di angoli di città. Qui, ne sono convinto, ha avuto un ruolo tanto determinante quanto sottaciuto, il corso di laurea di architettura della sede di Agrigento dell’Università di Palermo che ha laureato numerosissimi ragazzi e ragazze che hanno potuto mettere al servizio del proprio amore per la città e per la città stessa le competenze importanti che hanno acquisito anche rimanendo ad Agrigento. E anche questo è un progresso.

Per evitare che l’asfalto della passeggiata archeologica diventasse nero bisognava vietare che vi si  transitasse su gomma. Neanche a parlarne in una città dove non si riesce a chiudere al traffico neppure le vie strette del centro storico. “Allineare l’interesse generale e quello individuale “, dici. Sappiamo quanto sia stato e sia difficile con gli abusi edilizi e con la raccolta differenziata. Prova a declinare questo principio sul tema della mobilità ad Agrigento, dove chi non possiede un mezzo di trasporto privato ha serie difficoltà a spostarsi da Villaseta alla zona industriale o a villaggio Mosè. È  il grande tema della transizione, di un passaggio verso forme diverse dell’abitare, dello spostarsi, dello stare assieme. Accennavi all’ottimo lavoro fatto dalla Facoltà di Architettura. Che ruolo può avere   l’Università, la ricerca, la formazione ad Agrigento nella prospettiva della transizione? Intendo transizione anche verso un modello di città ecocompatibile.

L’analisi che facevamo alla fine degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta era che la nostra città – come buona parte del Mezzogiorno – fosse prigioniera di un modello di sviluppo dipendente da una spesa pubblica spesso improduttiva se non dannosa che alimentava un consenso particolaristico, clientelare, affaristico.

Inoltre quella economia così dipendente dai trasferimenti pubblici, oltre a conferire un potere abnorme alla classe politica di governo (che poi, con la logica consociativa, era anche di opposizione) alimentava nella società civile una conflittualità da accesso a risorse scarse a base, appunto, di ricorsi a camarille, clientele, raccomandazioni, truffe, falsi e corruzione. C’era anche da emanciparsi da questa mentalità che spesso ancora ritrovo.

In breve, bisognava liberare l’economia dalla dipendenza, renderla capace di produrre reddito autonomamente, creare sviluppo autonomo come recitava il titolo di un libro di Carlo Trigilia che per la mia formazione sociologica ma anche politica fu fondamentale.

Rispetto a quella linea a che punto siamo? Siamo al punto che l’economia locale è entrata in apnea, ha sofferto moltissimo, è riesplosa l’emigrazione dei giovani verso il nord e pure verso l’estero, per altro con ampie manifestazioni di precocizzazione del fenomeno per cui i ragazzi vanno via non al compimento degli studi ma prima. Se ne vanno i ragazzi e così si compromette il futuro.

Eppure, qualcosa si è mosso nella direzione auspicata perché l’unico modello possibile di sviluppo, di creazione di lavoro e di reddito, per la nostra città è il turismo. I flussi turistici sono aumentati, la città è diventata più capace di intercettarli. Ha migliorato la propria offerta, i giorni di permanenza dei turisti sembrano essere cresciuti. Pensa a come era la Valle dei Templi prima e come è adesso dopo l’istituzione del parco. Un esempio concreto: hanno modificato i percorsi di visita rendendoli più coerenti e più ricchi e il risultato è che per visitare la Valle non bastano più le due ore che prima erano concesse ai turisti che giungevano da altre località coi bus. L’immagine della città è profondamente cambiata: negli anni della tua gioventù era la città della speculazione edilizia, quella di Urbanistica 48 che si studiava (e credo si studi ancora) nei corsi di urbanistica delle Università italiane; negli anni della mia gioventù era la città dell’abusivismo edilizio che assediava la Valle dei Templi. Oggi è la città dei Templi e della Scala dei Turchi. La città ha visto emergere una categoria di individui che hanno saputo investire e intraprendere nell’offerta turistica: B &B, ristoranti, pub, la movida, la ricerca di qualità e di eccellenza con punte importanti di impegno sociale e ambientale. Sono cose che hanno cambiato l’economia, il paesaggio, l’immagine della città. È l’unica strada possibile e questa bisognerà continuare a battere.

Una frontiera alla quale penso dovremmo lavorare è anche quella dell’autopercezione. Quanta ironia e anzi quanto sarcasmo a buon mercato si è fatto sulla candidatura di Agrigento a capitale della cultura? Eppure, la città è arrivata fra le prime dieci e alla fine poco c’è mancato che lo diventasse ed è stata superata solo da Parma. Il progetto di gestione del Parco ha avuto ampi riconoscimenti, è una esperienza di innovazione istituzionale che può fare da modello su scala internazionale e non a caso vince il premio nazionale del paesaggio e il Consiglio d’Europa lo menzionò come modello per “lo sviluppo sostenibile e l’integrazione sociale”. Vogliamo riconoscere le cose che si fanno? C’è all’opera una città diversa; virtuosa, attiva, positiva.

Ginger, il ristorante, vince il premio Bezzo per la ristorazione virtuosa e il secondo classificato è un altro ristorante agrigentino, Terracotta. Entrambi vincono non semplicemente per la qualità delle pietanze ma per l’insieme del processo produttivo in cui si coniugano redditività e integrazione sociale e sostenibilità ambientale, promozione della produzione locale, cura dei più vulnerabili.

Grazie al piazzamento di Ginger riceviamo un finanziamento dalla fondazione PLEF per una indagine sulla città e vengono fuori tante cose interessanti che possono essere lette nel report reperibile qui

(https://www.google.com/search?sxsrf=ALeKk033l7cp6SKEgRZIOT7DK8Nx1VomNA%3A1603730464881&ei=IPyWX-yPNcjykwX024WgDg&q=agrigento+report+alimentazione&oq=agrigento+report+alimentazione&gs_lcp=CgZwc3ktYWIQA1DsTFjsTGDjTmgAcAB4AIABjAGIAYwBkgEDMC4xmAEAoAEBqgEHZ3dzLXdpesABAQ&sclient=psy-ab&ved=0ahUKEwjsn7LF2dLsAhVI-aQKHfRtAeQQ4dUDCA0&uact=5)

Tema  intrigante quello dell’autopercezione e delle “narrazioni”,  che meriterebbe una nuova intervista. Può succedere infatti  che nelle “nuove narrazioni della città” possano saltare pagine e pagine. A cominciare da  quella su Parco Icori, dove paesaggio, silenzio, verde, impianti sportivi, un teatro e un cinema all’aperto sono stati abbandonati e vanno in rovina. Eppure l’offerta  culturale in città (teatro, cinema, convegni, mostre, concerti) rimane modesta anche in relazione alla disponibilità degli spazi;  eppure, malgrado il degrado, ci sarebbero imprenditori dello spettacolo   che sarebbero interessati alla gestione del teatro (e dell’arena  cinematografica)  se soltanto i poteri pubblici facessero la loro parte.

Quel luogo abbandonato, pressoché sconosciuto a due generazioni di agrigentini, si inoltra nella Valle partendo da Rabato, collega la città medievale al Parco archeologico, potrebbe avvantaggiarsi della linea ferrata che collega Agrigento e Porto Empedocle  “avvicinandole” e riconoscendo a Parco Icori una nuova centralità.  Potrebbe fare economia, trascinare una rinascita di via Garibaldi, di Rabato e Santa Croce.  Forse rimane vittima di una eccentricità, appunto,  solo percepita: la scala che conduce nel cuore del Parco partendo dal Municipio si può raggiungere in dieci minuti a piedi.

Firetto ha dichiarato che per poter puntare al  recupero intanto del teatro bisognerebbe realizzare le due vie  di fuga, di cui esistono già i tracciati. Ritieni auspicabile che la nuova Amministrazione si occupi di Parco Icori, a cominciare dal finanziamento della sua messa in sicurezza?

Il Parco dell’Addolorata è una risorsa potenziale che merita una riflessione attenta non solo per recuperarlo ma anche, e direi soprattutto, in funzione di quello cui alludi nella domanda e cioè il poter diventare parte di un sistema integrato con la città e con il parco della Valle dei Templi. Il Parco dell’Addolorata ha sofferto di incuria e degrado ma anche e credo strutturalmente di una collocazione infelice. È difficilmente accessibile ed è sostanzialmente invisibile. Soffre cioè dei limiti che già Jane Jacobs individuava per i parchi: se non sono a vista di passanti e residenti si trasformano in ritrovo per il mercato e il consumo di prostituzione e di stupefacenti. Mi pare che il parco non abbia svolto neanche queste funzioni. E invece è una risorsa, una potenzialità importante per creare qualità urbana e contribuire alla creazione di quel profilo di città che immaginiamo quando pensiamo a una città turistica.

foto di Tano Siracusa

Di Bac Bac