di Alfonso Maurizio Iacono

Edouard Manet

Sì, dopo il Festival di Sanremo, venti ventitre, come diceva Amadeus americanizzando l’anno (del resto chi non è americano? Un mio collega italiano che vive e lavora in Francia mi ha fatto notare che qui da noi anche gli operatori ecologici hanno la tuta arancione con la scritta cleaner e poi, basta vedere la gran quantità di negozi con le scritte in inglese) forse bisogna ritornare a Guy Debord e al suo La società dello spettacolo. Ma chi lo legge più oggi? Persino il suo linguaggio può apparire oggi difficile se non incomprensibile. Questo perché la sua scrittura non è popolare o nazionalpopolare? No, ma perché a quanto pare nove giovani su dieci, oggi, hanno una generale difficoltà a comprendere il senso di un testo. Vi è una forma di analfabetizzazione di ritorno che è compensato dallo spettacolo e dalle immagini. Tutto questo ha uno scopo: renderci consumatori addomesticati. Non ho niente contro lo spettacolo e le immagini, anzi. Il problema sorge quando spettacolo e immagini assumono un ruolo totalizzante e sostitutivo. Non sto parlando dell’arte e della letteratura, dove la finzione (da fingo che significa immagino, creo, formo) è una meravigliosa pratica di verità, sto parlando dello spettacolo delle merci che oggi domina ogni altra forma di rappresentazione. Le merci danzano come i tavoli delle sedute spiritiche evocati da Marx e da Flaubert. Scrive Debord: “lo spettacolo è l’altra faccia del denaro: l’equivalente generale astratto di tutte le merci. Ma se il denaro ha dominato la società in quanto rappresentazione dell’equivalenza centrale, cioè del carattere scambiabile dei molteplici beni il cui uso restava incomparabile, lo spettacolo è il suo complemento moderno sviluppato in cui la totalità del mondo mercantile appare in blocco, come equivalenza generale di ciò che la società può essere e fare. Lo spettacolo è il denaro che si guarda soltanto, perché in esso la totalità dell’uso si è già barattata con la totalità della rappresentazione astratta. Lo spettacolo non è solo il servitore dello pseudo-uso, è già in sé stesso lo pseudo-uso della vita” (G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari della società dello spettacolo, Sugarco, Milano 1990, p. 108). Queste considerazioni si possono applicare, a mio parere, a questo fenomeno tutto italiano (già americanizzato!) che è Sanremo venti ventitre.

Mi capita talvolta di ricordare che un tempo i jeans rotti erano sinonimo di anticonvenzionalismo e di trasgressione, oggi, diventati di moda, sono sinonimo di omologazione e conformismo. Questo vale, io temo, per il Festival di Sanremo di oggi. Come ha scritto la mia amica Ida Dominijanni, il Festival di quest’anno doveva essere quello del Fluid Gender , ma poi alla fine i primi cinque in classifica sono risultati tutti maschi. Poco importa che Fedez e Rosa Chemical si sono platealmente baciati. Resta una scena tra maschietti e l’idea di dare calci ai fiori – e Blanco dice poi, con finta o vera stolidità, che l’ha fatto per divertimento – la poteva avere solo un maschio. Dov’è la trasgressione? Dov’è l’anticonvenzionalismo? Dov’è il senso dell’altro? Dov’è il rispetto dell’alterità? Da nessuna parte. Tutto è assorbito come spettacolo in un mutamento di fondo, perché ora la musica non è più il fine del Festival, bensì il mezzo per pubblicizzare le merci che appaiono in pubblicità. Poco importa se vi è oppure no senso artistico. Tutto è assorbito nel narcisismo di massa, in un mondo dove l’insieme delle donne e degli uomini è soltanto la somma delle singole solitudini, come nella caverna di Platone, dove i prigionieri incatenati guardano le ombre che si stagliano davanti alla parete che hanno di fronte. Apparentemente sembrano importanti i messaggi di libertà lanciati via via nel corso delle serate, ma essi passano attraverso lo schermo come le ombre della caverna di Platone. Conta la pubblicità. Ogni tanto si interrompe la trasmissione per trasmettere i messaggi pubblicitari, ma in realtà la situazione è rovesciata: lo scopo sono i messaggi pubblicitari, lo spettacolo del Festival è solo un mezzo oppure una cornice. Ormai è così anche per il calcio, i cui mondiali, come tutti sanno, si sono svolti nel Qatar per quel tipo di rapporto tra denaro e spettacolo a cui faceva riferimento Debord. Amadeus, Mattarella con la sua presenza, Benigni, la Ferragni hanno cercato di mandare messaggi democratici e di libertà. Questi messaggi sono partiti in un clima di assoluto perbenismo e conformismo. Come sono arrivati agli spettatori? Penso che siano arrivati in un filo non troppo sottile di arroganza. E poi, lanciare messaggi etico-politici in uno spettacolo di personaggi, alcuni dei quali vestiti in modo aggressivo più che trasgressivo, piuttosto che di cantanti, dominato dalla pubblicità delle merci, è come lanciare un boomerang. Qualcuno ha detto che questo Festival è stato di sinistra perché apparentemente in contrapposizione al governo di centro-destra. Ma il giorno dopo, in un mare di astensionismo, è stato il centro-destra a stravincere le elezioni in Lombardia e nel Lazio. Come ha detto Maurizio Crozza in un video impersonando la Meloni: ”voi vi siete presi il festival, io l’Italia!”. Nel secolo scorso il conformismo era contrassegnato dall’uso delle camicie tutte dello stesso colore. Oggi avviene il contrario. Il conformismo si presenta con le camicie multicolori, i tatuaggi, l’esibizione sotto le false spoglie della trasgressione. Si era conformisti come il Marcello Clerici del romanzo di Alberto Moravia e del film di Bernardo Bertolucci. Si è conformisti così come ce lo hanno descritto Sandro Luporini e Giorgio Gaber. Questo serve allo spettacolo delle merci e questo si fa in un contesto in cui, immersi come siamo in un presente-eterno e in assenza di qualunque desiderio di un futuro che non sia la falsa speranza individualistica di soddisfare i propri bisogni, la stessa contrapposizione tra destra e sinistra è diventata ormai solo parte della stessa rappresentazione. Questo significa arrendersi? No! Significa soltanto togliersi i prosciutti dagli occhi. Ciò fatto, il resto verrà.

Di Bac Bac