di Daniele Rizzo

Giuseppe Agozzino, tecnica mista

Le ‘tortuose’ manifestazioni del teatro contemporaneo non dovrebbero scandalizzare il milieu che, con le sue perturbanti idiosincrasie, permise a Luigi Pirandello di smontare il vecchio e rimontare un nuovo classicismo drammaturgico. Eppure pare che nella città dei Templi l’evoluzione delle arti dal vivo si sia fermata alla metà del secolo scorso e che il paradigma imperante rimanga quello, fondamentale ma datato, della Teoria del dramma moderno (1880- 1950) . Esemplificandone la complessità di analisi, dalla teoria di Péter Szondi emergono tre fasi fondamentali per la scrittura teatrale: nella prima, a entrare in crisi a causa di una “antinomia interna” è il modello del dramma classico come mondo di finzione e “tutto compiuto e autonomo” dove le scene si susseguivano secondo i legami di causa e effetto, le unità aristoteliche e un processo d’immedesimazione; sul finire del XIX secolo, a comparire sono opere dove tracce di novità permangono in una struttura ancora tradizionale (Ibsen, Čechov o Strindberg); infine, con la mediazione dell’io epico di Brecht, che strania e rende manifeste le strutture della messinscena, a ricomporsi in una “ forma aperta” è proprio “la frattura della coesione narrativa dell’azione” ( Il novecento del teatro. Una storia, Lorenzo Mango, 2019).

Dal punto dell’estetica teatrale, è interessante notare come questa interpretazione non metta in discussione la funzione mimetica del dramma e ne incardini lo scopo non nel far finta di essere reale, ma nel dare della realtà una rappresentazione dialettica e teleologica. Nell’intenzione di Szondi, la dialettica e teleologia sembrano infatti caratterizzare tanto la drammaturgia borghese, quanto quella marxista che, pur rivoluzionaria rispetto allo status quo , costruisce e sviluppa il dramma epico attraverso il ritmo, la dialettica, il dibattito e la soluzione. Nel dramma, non importa se classico o moderno, borghese o marxista, il teatro resta allestimento di materiali scenici (scenografia, costumi, trucco, recitazione, regia) che collocano la percezione spettatoriale in una determinata prospettiva finalistica, la quale presuppone che tra il mondo della realtà e quello del teatro ci sia omogeneità (interna) e identità (reciproca). È evidente l’anacronismo di questa concezione, tuttavia, ed è paradossale, nonostante i segni del tempo questo modo di fare del palco un’imitazione della realtà e quindi il teatro attraverso Grandi Racconti, Grandi Scenografie, Grandi Attori/Autori/Registi e Grandi Produzioni persiste nel nostro lembo di isola, dimenticando come, almeno dagli anni Sessanta, la grammatica teatrale sia stata smottata da una diffusa e costante irruzione di nuovi ed eterogenei elementi scenici e da una perdurante attitudine alla sperimentazione. Il Contemporaneo è ormai impossibile da ridurre allo sviluppo dialettico e teleologico del dramma e nuovi paradigmi estetici (che, a onor del vero, andrebbero ulteriormente aggiornati per testimoniare i recenti sviluppi del teatro nel XXI secolo) hanno provato a dimostrare l’impossibilità di una narrazione mimeticamente drammatica: Il Teatro postdrammatico (1999) di Hans- Thies Lehmann ha fatto cadere il principio est-etico della conciliazione contenuto dal dramma e ne ha compromesso l’intima promessa dialettico-teleologica di identificazione tra personaggio e persona e tra palco e realtà spostando il baricentro della contemporaneità teatrale e il suo “potenziale di disintegrazione,​smontaggio e decostruzione nel dramma stesso” da Brecht ad Antonin Artaud, al quale risalgono la definitiva presa di distanza da un ordinamento centrato sul logos e il rifiuto del modello discorsivo/dualistico di autore (onnipotente) e osservatore (isolato); Estetica del Performativo (2004) di Erika Fischer-Lichte, che vede nella ‘prima’ Marina Abramović il proprio nume tutelare, ha poi radicalizzato ulteriormente la ‘polemica’ contro il teatro drammatico e ne ha demolito i fattori coercitivi e omologanti della pratica (disciplina, tecnica, autorialità) promuovendo un inedito oggetto teorico (lo spettacolo), una nuova modalità di allestimento (il loop autopoietico di feedback) e un’originale relazione estetica (la liminalità). La relazione tra paradigmi rappresenta una contrapposizione inconciliabile: quello drammatico costruisce una scena prospettica che specchia il reale e forza gli spettatori a vedere riflesso il proprio stesso universo ideologico, riconoscendolo e sovrapponendolo a quanto rappresentato; il Postdrammatico, invece, fa dell’ecologia scenica un caleidoscopio di metonimie che sfugge ai simbolismi e alle metafore e dove la possibilità di mimesi di un mondo fittizio eclissa perché l’allestimento viene intenzionato e realizzato come reale; per il Performativo, infine, la scomparsa dell’autorialità/autorità (del testo e della regia) è un epifenomeno dell’evento spettacolare, il quale non può – per costituzione – essere pianificabile nel determinare la percezione e i significati, i quali si auto-producono e rinnovano per via della co-presenza corporea di performer e spettatori.

Alla luce del “sogno” di Agrigento Capitale Italiana della Cultura 2025 che comprende anche investimenti in progetti di formazione teatrale affidati a Gaetano Aronica, Marco Savatteri e Giovanni Volpe (professionisti esperti, ma più del Tradizionale, che del Contemporaneo?) e dopo aver assistito a L’uomo dal fiore in bocca, l’ultima recita , a The Children, a Il caso Tandoy e ad Antigone / I Riflessi del Mito , opere di “punta” di questo inizio di stagione invernale, ci si chiede se l’instancabile fermento estetico che anima le arti performative contemporanee abbia toccato quella che fu la più bella città dei mortali. Non si questiona sulla qualità delle maestranze o sulla godibilità degli allestimenti, tantomeno sulla loro dignità scenica, ma ci si interroga se all’incrocio di queste latitudini e longitudini chi si occupa di teatro si sia accorto di quello che lo psicanalista Benasayag chiama il “negativo che incrina la pretesa totalizzante di ogni credenza”. Al di là dell’apprezzamento o meno dei singoli spettacoli, l’arte teatrale – istituzionale e non – potrebbe/dovrebbe stimolare il riconoscimento dell’urgenza est-etica di un pensiero critico, far riflettere negativamente sulla produzione dei discorsi e delle pratiche socio-culturali di formazione disciplinare del soggetto occidentale e contrapporsi a quel “gigantesco altoparlante della cultura industriale” che, ammoniva Horkheimer, intona pericolosamente lo stesso ritornello: “questa è la realtà com’è, come dev’essere e come sempre sarà”. Se non si riduce a intrattenimento ozioso per classi passive, il compito del teatro appare titanico, perché, come ricorda la Teoria estetica di Adorno, deve assumersi la responsabilità di “portare caos nell’ordine” per inficiare l’ipocrita conciliazione promessa dai media globalizzati ed evitare che il disincantamento del mondo diventi la​ paralizzante forma di neocinismo in cui si riflette l’individualismo di questi tempi bui.​

Di Bac Bac